Sono già passati due mesi dalle elezioni e il ‘nuovo’ governo, dopo aver mantenuto la promessa centrale della sua campagna elettorale assicurandosi in tempi record il ‘passaggio’ della legge sui tagli fiscali - compresa la fase tre che entrerà in vigore fra cinque anni (con un’altra elezione di mezzo) -, si è fermato a contemplare il futuro. Anche perché sulla sua ‘agenda’ programmatica per la verità c’è ben poco. A parte le tasse da ridurre e il bilancio da riportare in attivo, Scott Morrison durante la campagna si è fatto soprattutto certo che Bill Shorten non diventasse primo ministro, spiegando tutti i perché del caso.

Più della metà dell’elettorato, evidentemente, era d’accordo con lui, ma ora la realtà salta agli occhi: come nel 2013, dopo la straripante vittoria di Tony Abbott e i susseguenti ‘festeggiamenti’ per lo scongiurato ‘pericolo’ laburista, si comincia a scoprire che alle cose da fare non ci ha pensato nessuno. Così si è cominciato a parlare, con un positivo approccio bipartisan, di affrontare la questione ‘morale’ del riconoscimento della popolazione indigena nella Costituzione e dell’eventuale complessa concretizzazione delle richieste di una ‘voce garantita’, in un possibile modernizzato stile Atsic (l’Aboriginal and Torres Strait Islander Commission voluta da Bob Hawke nel 1989 e smantellata da John Howard nel 2004) vicinissima alle stanze del potere, migliorata nella struttura e nel ruolo e, soprattutto, questa volta protetta da un’apposita legislazione.

Catapultati sulla mini-agenda della Coalizione, in questo caso grazie all’intervento dell’ex leader dei nazionali Barnaby Joyce, i possibili aumenti dei sussidi, davvero ‘minimi’, di Newstart fermi ai tempi di Keating, mentre nessuno sembra particolarmente interessato a parlare di cosa fare nel settore energetico, con un paio di verità che stanno venendo a galla e che non sono per niente incoraggianti (nuovi rincari e record di esportazioni di gas che non fruttano un granché).

D’altra parte il primo ministro può tranquillamente sostenere, senza paure di smentite, che per quello che lo riguarda non ha nulla da scusarsi in questo campo: il ‘problema’ non rientrava nel programma elettorale, importante era solo impedire che i laburisti portassero avanti il loro progetto anti-emissioni che sarebbe costato al paese un, mai esattamente quantificato, mare di miliardi.

Morrison, per ora, non ha nulla da dire in proposito e tocca quindi al riconfermato ministro dell’Energia, Angus Taylor, cercare in qualche modo prima di tutto di ‘salvare’ la centrale a carbone di Liddell, nel New South Wales, che i ‘gestori’ dell’AGL vogliono chiudere entro 18 mesi, ma che garantisce almeno il 15 per cento delle forniture di elettricità dello Stato più popoloso d’Australia e poi quella nella Latrobe Valley, nel Victoria. Uno Stato in cui la spinta per le rinnovabili si fa sempre più consistente e ambiziosa, con giustificati timori che si stia correndo troppo in fretta verso le nuove fonti d’energia abbandonando prematuramente le garanzie   offerte dai combustibili fossili.

Si continua intanto a discutere, ma sempre più sottovoce e con sempre meno convinzione, anche di nuove centrali meno inquinanti a gas e carbone ‘pulito’, a sostegno dell’idea di un processo graduale di de-carbonizzazione mentre sono in arrivo nuovi rincari delle bollette energetiche, nonostante le promesse della Coalizione, di un attento monitoraggio di costi, profitti e tariffe imposte agli utenti da parte delle aziende del settore.  

La scorsa settimana, intanto, l’Australia ha superato il Qatar ed è diventato il primo paese al mondo per ciò che riguarda l’esportazione di gas liquido (LNG). Il valore dell’export sta per passare dai 32 miliardi del 2017-18 ai 51 miliardi nel 2018-19, con un incremento della produzione pari al 21 per cento nel giro di dodici mesi. A Canberra dovrebbero festeggiare: più export, più entrate, ma non è proprio così a causa delle leggi australiane sui diritti di concessione delle risorse naturali.

Le più generose del mondo, un altro record, per le multinazionali del petrolio come Chevron, ExxonMobil e Shell che estraggono il gas dai giacimenti soprattutto del Western Australia e del Queensland (con progetti già approvati nel Northern Territory) dopo avere investito svariati miliardi nelle infrastrutture necessarie per farlo, minimizzando i profitti tassabili. I 29,7 miliardi di affari ‘down under’ del 2017-18 hanno portato nella casse federali poco più di un miliardo in ‘royalties; l’anno precedente i 22,7 miliardi di entrate per le multinazionali in questione hanno generato solo 930 milioni di PRRT (Petroleum Resource Rent Tax).

 Giusto per capire la generosità australiana: nel Qatar per le stesse entrate (52,4 miliardi), le compagnie hanno pagato imposte per un totale di circa 26 miliardi di dollari. Forse qualcosa da rivedere e da ‘fare’ quindi per il nuovo governo ci sarebbe sul fronte delle tasse per lo sfruttamento di una delle tante risorse naturali del ‘Lucky Country”.

Ci sono, per la verità, anche ‘dividendi’ che le multinazionali pagano agli Stati direttamente interessati all’estrazione dl gas, ma ancora una volta i ‘numeri’ sono ben inferiori a quelli che potrebbero essere senza le legalissime possibilità di ammortizzare le spese degli impianti con generosi incentivi e ‘spostare’ all’occorrenza i profitti in altre aree del mondo.

Una piccola nota quindi da inserire nell’agenda delle cose da fare  dell’amministrazione Morrison che, comunque, già comprende quella che il ministro dell’Interno Peter Dutton considera una specie di emergenza, tanto che intende risolvere il ‘problema’ con un voto in Aula già questa settimana: il nuovo giro di vite proposto nel campo della sicurezza riguarda i cosiddetti ‘Foreign fighters’ (e le loro famiglie) che intendono ritornare in Australia dopo essere andati a combattere in Siria e Iraq sotto la bandiera dello Stato islamico.

Dutton vorrebbe introdurre la stessa legge antiterrorismo applicata dalla Gran Bretagna, che prevede di rifiutare il ritorno nel Paese per almeno due anni, concedendosi il tempo di fare maggiori accertamenti sullo stato di pericolosità dei ‘combattenti’: dal 2012 ne sono partiti 230 dall’Australia, quaranta sono già rientrati, un’ottantina stanno ancora ‘combattendo’ da qualche parte.

 Dutton intende presentare la nuova legge in Parlamento già questa settimana col doppio intento di rafforzare sì la sicurezza interna, ma anche di mettere subito alla prova la promessa di massima collaborazione e severità bipartisan dei laburisti.

Un secondo test dunque per Albanese: d’altra parte, dopo la bocciatura di maggio, anche l’opposizione ha un’agenda politica con ampi spazi bianchi da riempire.