Una settimana governo in ripresa, la settimana dopo governo alle corde. In mezzo due suppletive alle quali soprattutto il primo ministro non doveva dare tutta l’importanza che ha dato. Ma col senno del poi è tutto più facile: si può spiegare ogni cosa con una serena logica del tutto assente quando dovrebbe servire. Col senno del poi però bisogna anche ammettere che i risultati, a prima vista disastrosi per la Coalizione ed esaltanti per i laburisti sono un po’ meno disastrosi per i primi e un po’ meno esaltanti per i secondi. E i due leader hanno reagito esattamente come avevano fatto nel luglio del 2016 dopo la quasi disfatta liberale e il successo (in quel caso non completo) degli sfidanti. Bill Shorten non aveva perso un attimo di tempo per ‘celebrare’ la quasi vittoria: per due settimane era andato su e giù per il Paese a stringere mani e concedersi a benevole telecamere per raccontare che gli australiani avevano lanciato un chiaro segnale di disapprovazione nei confronti di Turnbull e dei suoi programmi di governo. Poco più di due anni dopo, stessa storia: in questo caso il leader dell’opposizione però ha vinto il mini-test a cui è stato dato un significato e valore esagerato, ma il ‘tour’ non si è fatto attendere. Ancora una volta su e giù per Paese a festeggiare, a parlare di bocciatura del primo ministro e di tutto quello che vuol fare, soprattutto per ciò che riguarda la riduzione delle tasse per le aziende, dribblando con collaudata maestria il ‘problema Husar’ con la scusa dell’indagine ‘in famiglia’ (l’inchiesta è condotta all’interno dell’Alp) ancora in corso (altro servizio a pag. 13). E il primo ministro?

Assente fino a venerdì scorso quando ha presentato il nuovo libro del giornalista dell’Australian, Greg Sheridan. Ieri, finalmente, un ritorno in campo, visibile e dovuto. Un breve viaggio nella drammatica realtà della prolungata siccità che sta mettendo in ginocchio centinaia di agricoltori e allevatori nell’entroterra del New South Wales e del Queensland. L’annuncio di un pacchetto di aiuti straordinari del valore di oltre 190 milioni di dollari (servizio a pag. 3), un tu per tu, a tratti toccante, con famiglie che rischiano di perdere tutto quello che hanno, con la devastante realtà di un crescente impoverimento, isolamento sociale e l’insufficiente assistenza dal punto di vista della salute mentale, che continua ad avere in molte aree rurali tragiche conseguenze.

Nelle ultime 48 ore ha ravvivato uno stagnante dibattito politico (in attesa della riunione di venerdì prossimo dei ministri statali dell’Energia e dell’Ambiente chiamati a decidere sul futuro del progetto NEG -National Energy Guarantee) un altro tema sul quale i laburisti punteranno parecchi gettoni elettorali: quello delle assicurazioni sanitarie private. Quasi certa l’introduzione di un tetto del 2 per cento dei rincari annuali delle polizze per due anni e l’affidamento ad una commissione indipendente di una revisione del meccanismo degli sconti fiscali (fino al 30 per cento) sulla copertura privata. Elettoralmente qualsiasi contenimento dei puntuali rincari sarà accolto favorevolmente, quindi vantaggi certi a breve scadenza. Politicamente ed economicamente però il discorso si fa più ingarbugliato perché il ‘congelamento’ delle polizze potrebbe portare a pesanti aggiustamenti il terzo anno (o ad un aumento dei co-pagamenti per le prestazioni mediche a carico dei pazienti) con fuga degli assicurati e maggiore responsabilità e peso per l’assistenza pubblica. Con un possibile aggravamento della situazione se si deciderà di mettere mano agli incentivi fiscali. Un tema complesso, con diverse sfaccettature, che purtroppo va al di là di un’ideale sanità solidale e universale.

Piccole anticipazioni di quello che verrà nelle prossime settimane e mesi, ma attenzione ancora focalizzata sulle suppletive e le loro conseguenze. A bocce ferme, facile dire che Turnbull ha sbagliato a parlare, riferendosi a Longman e Braddon, di una specie di referendum sulla leadership e sui programmi. Ora sta pagando le conseguenze, anche se in Queensland e in Tasmania, andando a caccia dei dettagli non è poi successo niente di così catastrofico per gli sconfitti e niente di così straordinario per i vincitori.

E’ vero che voto primario del Liberal National Party (LNP) è sceso del 9 per cento, ma il grosso del malloppo perso è andato a One Nation, non ai laburisti che hanno registrato uno spostamento di voti a loro favore perfettamente in linea con quella che è la media di ogni suppletiva da più di novant’anni a questa parte. Il problema per Turnbull, almeno per quello che riguarda il Queensland, non è quindi Shorten, ma Pauline Hanson e… Tony Abbott. Problemi seri, entrambi difficili da affrontare e risolvere. Perché i due ‘avversari’ hanno un notevole seguito personale in certe aree di uno Stato quasi mai politicamente in linea col resto dell’Australia. Uno Stato che si trova perfettamente a proprio agio con il modello politico-culturale di personaggi come Barnaby Joyce, Bob Katter, George Christensen, Clive Palmer, con la semplicità programmatica della Hanson e la ‘chiusura’ di Abbott (in Queensland di gran lunga preferito a Turnbull, al quale non è mai stato perdonato il ‘golpe’ del 2015) e Peter Dutton.

Voti di One Nation decisivi, avevamo scritto prima della resa dei conti delle urne. Se venivano interamente ‘restituiti’, via preferenze, andandosi a sommare a quelli che nel 2016 avevano permesso ai laburisti di vincere il seggio, probabilmente avrebbero effettivamente restituito il collegio alla Coalizione, ma ancora una volta i sostenitori della Hanson hanno dimostrato la loro imprevedibilità e scarsa propensione a seguire le direttive del partito sulla spartizione dei voti. 

A Braddon Justine Keay ha vinto con uno spostamento minimo di suffragi a proprio favore su base bipartitica (più 0,1%): determinanti in questo caso i voti preferenziali dell’indipendente Craig Garland che ha raccolto il 10,6 per cento di consensi. Risultato quindi uguale a quello del 2016 con due quasi identici blocchi di voti primari tra liberali (39,6%) e laburisti (36,3%) e piatto della bilancia fatto pendere da una parte o dall’altra dagli altri partecipanti alla gara in un seggio tra i più poveri d’Australia senza alcun tipo di fedeltà politica. Ha cambiato ‘padrone’ ad ogni elezione da metà degli anni Novanta. Tutto da vedere quindi quello che succederà nel 2019.

Insomma, non era tutto oro quello che luccicava due settimane fa in casa liberale e non è tutto oro quello che sembra luccicare ora in casa laburista. Ovvio che è sempre meglio, per il morale, stare dalla parte di chi vince, ma si tratta di mettere nella giusta prospettiva disfatta e trionfo. Più chiara la situazione a Mayo, nel South Australia, perché la vittoria di Rebekha Sharkie conferma una tendenza che sembra ormai abbastanza consolidata sulla scena politica australiana: è difficile arrivare alla Camera come indipendenti o come rappresentanti di partiti minori, ma una volta conquistata l’ambita poltrona la ‘difesa’ sembra quasi automatica. Qualche esempio? Cathy McGowan è stata riconfermata con una certa convinzione dagli elettori nel 2016 dopo che, nel 2013, aveva strappato di misura il seggio di Indi (Victoria) alla liberale Sophie Mirabella; Andrew Wilkie ha conquistato il collegio (ex laburista) di Dennison, in Tasmania, nel 2010 e non ha avuto alcun problema di riconfermarsi nel 2013 e 2016; Peter Andren (ora scomparso) nel 1996 strappò Calare (NSW) ai laburisti e rimase in Parlamento fino al 2007, quando decise di ritirarsi dalla politica;  Tony Windsor ha conquistato il seggio di New England nel 2001 e l’ha difeso con successo tre volte, prima di farsi da parte nel 2013 sapendo che avrebbe pagato le conseguenze dell’appoggio dato al governo laburista di Julia Gillard. Stessa storia per Rob Oakeshott nel collegio di Lyne (NSW) strappato ai nazionali nel 2008 e difeso con successo fino al ritiro nel 2013.  Bob Katter ha abbandonato i nazionali nel 2001 (seggio di Kennedy, in Queensland) e nessuno l’ha più messo in discussione come indipendente: nel 2011 ha formato il suo partito, il Katter’s Australian Party. Ha rischiato qualcosa nel 2013 e ripreso il largo nel 2016. Adam Bandt, dopo aver lottato per conquistare il seggio di Melbourne, lo ha fatto diventare una roccaforte dei verdi.