Come volevasi dimostrare: G20 ad Amburgo e susseguenti tappe a Parigi e Londra non possono che dare a Malcolm Turnbull la possibilità di recuperare morale e forze, oltre che di incamerare qualche prezioso punto-visibilità grazie anche al ‘passaggio’ che gli è stato offerto da Donald Trump sulla ‘Bestia’ (la vettura super blindata sulla quale viaggia il presidente americano durante le missioni all’estero) - “Mi sono sentito ultrasicuro”, ha detto scherzando il primo ministro - e a quello altrettanto gradito sull’aereo presidenziale francese in compagnia di Emmanuel Macron e la consorte Brigitte, per il trasferimento da Amburgo a Parigi.
Un’ora e mezza di chiacchierata informale con il capo dell’Eliseo, prima degli incontri ufficiali improntati su relazioni commerciali, cooperazione antiterrorismo, ma soprattutto sul contratto miliardario stipulato con i francesi per la costruzione della nuova flotta di sommergibili.
Ad Amburgo particolarmente importanti, ai margini del G20, i colloqui con i presidenti del Consiglio e della Commissione europea, Donald Tusk e Jean-Claude Junker, che fanno ben sperare, secondo quanto ha dichiarato Turnbull, ad un lieto fine, nel 2019, dei negoziati (che continueranno nei prossimi 18 mesi) per un trattato di libero scambio tra Australia e Ue.
Tappa conclusiva della missione europea del primo ministro a Londra: altre foto per l’album di famiglia e le prime pagine dei giornali, assieme alla regina Elisabetta e quindi alla controparte britannica Theresa May. Poi ci sarà il ritorno alla realtà con la necessità di affrontare il tema che potrebbe segnare il destino del governo: le politiche energetiche. La crisi del settore, almeno per ciò che riguarda le astronomiche bollette (dal primo di luglio ulteriore rincaro, intorno al 20 per cento) che arrivano nelle case degli australiani e i traguardi che si vogliono fissare per rimanere al passo con il resto del mondo nella lotta contro il surriscaldamento del pianeta, potrebbe essere l’ancora di salvezza dell’attuale amministrazione o diventare la sua pietra tombale. La crisi (prezzi, affidabilità e futuro) che l’Australia è andata letteralmente a cercarsi, spinta da ‘nobili’ propositi e ambizioni che forse potevano essere un tantino più contenuti e ragionati, deve essere affrontata e risolta prima possibile.
E’ infatti assurdo, dimenticando per un attimo i meriti ‘morali’ di voler essere cittadini-modello del mondo industrializzato sul fronte ambientale, che un Paese che è uno dei massimi esportatori di carbone, di gas e di uranio, si sia autoinflitto una crisi energetica di straordinarie proporzioni. Una crisi che ha permesso al South Australia, uno Stato con seri problemi economici e di impiego, di aggiudicarsi il poco invidiabile record mondiale del prezzo della corrente, strappandolo alla Danimarca. Ma il problema è che gli altri Stati inseguono a breve distanza, con il Victoria che fa da battistrada nel gruppone degli autolesionisti.
Le responsabilità? Una volta tanto bipartisan. Tutti insieme appassionatamente a cercare di produrre energia pulita, approfittando di generosissimi incentivi governativi, con un entusiasmo che forse poteva essere contenuto entro i limiti della fattibilità senza danni, organizzando un po’ meglio il piano di azione tenendo conto delle conseguenze pratiche a breve e medio termine per industrie e cittadini. Niente da dire sull’obiettivo delle rinnovabili, ma controllando il passo perché arrivare primi in questo caso non paga.
Turnbull, uno dei primi a scattare dai blocchi di partenza dell’impegno globale, talmente convinto dalla causa da giocarsi nel 2009 la leadership liberale, ora frena un po’ e cerca compromessi che gli permettano di affrontare quello che per molte famiglie è diventato l’angoscioso problema del caro-energia. Ecco perché il rapporto Finkel, commissionato da Canberra per capire come muoversi nei prossimi mesi e anni, mantenendo fede agli impegni presi a Parigi, e allo stesso tempo cercando di ridurre i costi delle bollette energetiche, diventa cruciale per il governo. Le linee guida sono chiare, ma lasciano spazio a qualche interpretazione sia per ciò che riguarda il mantenere una rete di sicurezza rappresentata da gas e carbone, sia sugli obiettivi di produzione di energia affidata alle rinnovabili, anche se indica come valore ottimale un 42 per cento tra eolico e solare entro il 2030. Un traguardo che Turnbull non può certo fare suo perché, prima di tutto lo priverebbe di un bel po’ di munizioni per attaccare il piano del 50 per cento di energia prodotta da fonti alternative dei laburisti e poi perché significherebbe dichiarare guerra a metà del suo partito e ai nazionali che continuano a difendere l’industria del carbone, sono piuttosto scettici sulle teorie del surriscaldamento del pianeta e più che preoccupati per la provata, fino ad ora, scarsa affidabilità del solare e dell’eolico.
Turnbull quindi alla ‘prova del nove’ per tranquillizzare il pubblico sulle spese da contenere e gli investitori sulla linea programmatica a medio termine del governo. Soluzione ideale sarebbe un piano condiviso, che possa offrire certezze anche a lungo termine e quindi sottoscritto dall’opposizione che, ovviamente, in questo momento cercherà qualunque scusa per non farlo.
Con Abbott che spara a zero sul governo e insiste su soluzioni estreme come un tetto pari all’attuale 14 per cento per la produzione energetica affidata alle rinnovabili, investimenti governativi (dato che non sembra esserci grande interesse da parte dei privati) per nuove centrali a carbone e un approccio alla Trump sui traguardi fissati a Parigi giustificando i suoi ripensamenti con la necessità di rispondere agli umori popolari come stanno facendo Pauline Hanson e Cory Bernardi, Shorten può rimanere tranquillamente alla finestra a guardare ‘l’effetto che fa’.
Il leader dell’opposizione sa che al momento le decisioni le deve prendere Turnbull e che per arrivare alla Lodge la strada è abbastanza in discesa se non commetterà clamorosi errori, se si limiterà cioè a fare quello che fatto finora: ostruzionismo continuo con qualche esagerazione su temi altamente ‘sensibili’ per gli elettori come Medicare e tasse. Il governo è debole, ma soprattutto diviso con Abbott che non intende rinunciare al suo ‘diritto’ di dire a tutti che, dopo due anni di errori e scarse idee (mentre era al timone del Paese), ora ha visto la ‘luce’ e sa esattamente cosa si dovrebbe fare: i colleghi si agitano, ma Shorten ascolta con estremo piacere.