CANBERRA - Ci stiamo avvicinando ad un nuovo inizio: tocca a Malcolm Turnbull a tutti gli effetti. Ha vinto solo di misura un secondo mandato, ma l’ha ottenuto, che piaccia o no. Ha il diritto di poter parlare di legittimazione popolare (minima) del suo programma. E ha perfettamente ragione di chiedere a voce alta a Bill Shorten di mantenere gli impegni presi per ciò che riguarda la collaborazione sul lungo e tortuoso cammino per il rientro del deficit, che deve cominciare da subito con l’approvazione in blocco, alla riapertura dei lavori parlamentari, dei provvedimenti annunciati nell’ultimo documento di bilancio, ribaditi durante la campagna elettorale.

Il leader dell’opposizione ha politicamente frenato, come era ovvio aspettarsi, gli entusiasmi, rifiutando un sì a scatola chiusa, ma si rende perfettamente conto che potrà tirare la corda solo fino ad un certo punto, perché quei sei miliardi e mezzo di tagli di cui il primo ministro ha parlato nel suo primo intervento ufficiale dopo le elezioni, facevano parte anche del programma laburista. L’intenzione del governo è quella di unire in un unico disegno di legge 21 diversi provvedimenti, magari offrendo qualche minima contropartita, per evitare un inutile braccio di ferro su ogni singola iniziativa che farebbe male a Turnbull, perché metterebbe immediatamente in dubbio la sua autorità, ma anche a Shorten perché gli australiani non hanno nessuna voglia di rivivere la “guerra fredda” del 2010.

 Ai margini nell’omnibus (un’unica legge che modifica per l’appunto diverse normative) si sta già lavorando attorno ad un tavolo virtuale per raggiungere accordi su modifiche da apportare al pacchetto-famiglia - e un compromesso è nell’aria per sostenere le spese extra promesse, da entrambi gli schieramenti politici, sui servizi per l’infanzia -, mentre all’interno della Coalizione si discute di Superannuation, un tema che ha sicuramente influenzato il risultato del 2 luglio e creato parecchi malumori nelle file dei conservatori per correzioni considerate poco ‘liberali’ e anche controproducenti ai fini di contenere le spese pensionistiche, dato che ogni dollaro risparmiato, di questi tempi, conta.

Siamo alle ultimissime battute di una fase di preparazione della strategia che governo e opposizione adotteranno dai primissimi giorni del nuovo Parlamento, con il primo ministro e il ministro del Tesoro Scott Morrison costretti a mostrare determinazione e convinzioni da subito, non solo agli occhi del pubblico, ma anche del loro stesso partito, uscito moralmente malconcio dalla vittoria risicata alle urne. Test di maturità e realismo politico anche per Shorten: gli elettori sono rimasti colpiti favorevolmente dalla sua campagna, ma non hanno creduto fino in fondo alla sua linea finanziario-economica. Non può rischiare di rovinarsi reputazione e credibilità remando all’indietro su quello che gli fa comodo. Gli australiani ultimamente sembrano avere più memoria che nel passato e di prestare maggiore attenzione ai dettagli delle promesse, rifiutando l’idea delle ‘blindate’ e di quelle ‘un po’ meno blindate’ inventata con successo, in altri tempi più ‘permissivi’, da John Howard.

Per questo laburisti e verdi si sono buttati a capofitto sulla decisione, quasi certa dopo gli avvisi ricevuti dalla Commissione elettorale (AEC), di far slittare il plebiscito sui matrimoni tra persone dello stesso sesso a febbraio. Turnbull, durante la campagna, aveva assicurato una consultazione popolare in merito entro la fine dell’anno, seguita dal voto in aula prima possibile. Ma l’AEC ha chiesto tempo per l’organizzazione di quello che a tutti gli effetti sarà un maxi-sondaggio, dato che non ci sarà alcun vincolo per i parlamentari di rispettare qualsiasi risultato, e il governo sembra più che propenso a concederlo.

Shorten e il leader dei verdi Richard Di Natale hanno subito parlato di “promessa non mantenuta” da parte del primo ministro e ribadito l’inutilità del plebiscito “costoso e divisivo”: più logico ed immediato il voto libero, secondo coscienza, in Parlamento, tanto più che tutti i sondaggi da tempo indicano che gli australiani sarebbero in stragrande maggioranza favorevoli alla legalizzazione dei matrimoni gay.  Ma la politica in questo caso non lascia spazio a ripensamenti: Turnbull ha promesso, soprattutto alla destra del suo partito, di rispettare l’impegno che aveva preso Abbott e non ha alcuna intenzione di imbarcarsi in un’altra battaglia, non necessaria. 

Posizionamento in corso quindi un po’ su tutto, meno che sull’accordo bipartisan su un tema che incredibilmente non turba più di tanto le coscienze dei cittadini australiani: quello del trattamento assolutamente disumano riservato ai rifugiati, a quelli riconosciuti tali dopo già troppo lunghe verifiche. Quelli che languiscono nei campi di detenzione di Nauru e Manus Island (Papua Nuova Guinea) ormai da anni, senza alcuna colpa se non quella di essere dei disperati, fuggiti dagli orrori di guerre, torture e persecuzioni. Non profughi economici, non gente che cerca semplicemente un posto migliore in cui far crescere i propri figli, ma persone che ora hanno tutte le carte in regola per trovare ospitalità in paesi firmatari delle convenzioni Onu sul trattamento dei rifugiati, come per l’appunto l’Australia. Ma l’impegno disperato, esclusivamente per salvare (senza riuscirci) la propria pelle (politica) di Kevin Rudd, abbracciato con un pronto “sì grazie, anche noi” da Tony Abbott, è diventato intoccabile: “Nessun rifugiato arrivato via mare metterà mai piede in Australia”, era stato detto. Applausi scroscianti, in dirittura d’arrivo della campagna 2013, della maggioranza degli australiani, specie di quelli ormai ‘famosi’, per i quali tutto si dice e tutto si fa in tempo di elezioni, dei seggi nei sobborghi occidentali di Sydney, quelli che fanno decidere chi entra e chi esce dalla Lodge. Ma applausi soprattutto che continuano tre anni dopo, con nessuno (che conti) che trovi il coraggio di dire: “ Adesso basta”. Va bene la linea intransigente per fermare le barche, vanno perfino bene i respingimenti in partnership con la Malesia e l’Indonesia, ma non si possono lasciare centinaia di persone dietro il filo spinato per anni e, ancora più sadicamente, senza scadenze temporali solo perché servono da deterrente per altri disperati, per evitare la ripresa del traffico di essere umani verso l’Australia. Un’ingiustizia di straordinarie proporzioni: vittime due volte. E il ministro ‘responsabile’, Peter Dutton (ma i laburisti non è che si stiano strappando i capelli al riguardo), non solo accetta, senza battere ciglio, il patto Rudd-Abbott del ‘mai in Australia’ per i ‘boat people’, ma lo rende ancora più crudele rifiutando le offerte di accoglienza degli 800 rifugiati in limbo, di Paesi amici e meno crudeli come la Nuova Zelanda e il Canada. Il ministro giustifica la sua scarsa solidarietà umana sostenendo che, accettando una simile soluzione, si trasmetterebbe il messaggio sbagliato ai trafficanti di esseri umani, che non perderebbero un minuto di tempo per coniare un nuovo slogan: “Non in Australia, ma in Canada e Nuova Zelanda attraverso l’Australia”. Quindi fermezza fino in fondo, cercando destinazioni meno allettanti, senza fretta, scadenze e... umanità.