SYDNEY - Ogni tanto vogliono dare l’impressione di fare davvero qualcosa e così, senza alcuna precisa ragione o pressione politica, ecco l’annuncio che formalizza una realtà che già esiste aggiungendovi un pizzico di ‘cattiveria’ in più: gli aspiranti profughi in detenzione a Manus Island e a Nauru non solo non possono farsi alcuna illusione di poter un giorno vivere in Australia, ma non potranno nemmeno visitarla, come turisti, per il resto della loro vita. Il primo ministro Malcolm Turnbull e il responsabile dell’Immigrazione, Peter Dutton, hanno fatto l’annuncio ieri mattina, strappando gli applausi, via twitter, di Pauline Hanson (“bello vedere che il governo sta seguendo le nostre indicazioni”), per lanciare un segnale “forte e deciso ai trafficanti di uomini”, ha detto il leader liberale.

Annunciando anche la retroattività dell’iniziativa che comprende tutti gli arrivi non autorizzati ‘via mare’ da metà luglio del 2013 e che riguarda quindi tutti i circa 1300 rifugiati detenuti nei due centri extraterritoriali australiani, ma non i minori. Inclusi invece i profughi già ‘trasferiti’ in Cambogia, unico Paese coinvolto, a suon di milioni, nella strategia del ‘mai in Australia’ che si era inventato Kevin Rudd per cercare di vincere in extremis le elezioni del 2013.

Un annuncio che, con la scusa di lanciare ‘segnali’ di massima severità ai trafficanti, lancia soprattutto segnali rassicuranti alla destra del partito, in un momento in cui i sostenitori di Abbott hanno rialzato la testa, nonostante le puntuali smentite riguardo ambizioni e destabilizzazioni dell’ex leader.

“Non li vogliamo nemmeno, un giorno, come turisti”, all’insegna del massimo livello di esagerazione per ravvivare il penultimo intervallo parlamentare dell’anno prima della ripresa di lavori in Aula (il 7 novembre), poi un’altra breve pausa e quindi l’ultimissima sessione (dal 21 novembre al primo dicembre) prima del rompete le righe fino a febbraio del 2017.

Tre settimane in tutto di sedute, con un sacco di provvedimenti da dibattere e possibilmente varare dal Senato dove tutti gli occhi sono puntati su quello che sarà un giocatore-chiave per il futuro del governo, di Turnbull e del Paese: Nick Xenophon non è più il solitario rappresentante del South Australia, concentrato nella sua personalissima battaglia contro le ‘pokies’, ma il capitano di una minisquadra di grande peso nel nuovo scenario politico nazionale. Quattro voti che contano nella Camera alta perché sono quelli che, in molti casi, possono far pendere l’ago della bilancia  da una parte o dall’altra, considerando la ‘vicinanza’ di One Nation con il mondo dei nazionali, la provata attitudine di David Leyonhjelm di muoversi con in mano il suo ‘listino prezzi’ per il voto e il ‘quasi liberale’ Bob Day. Derryn Hinch è l’uomo nuovo, senza ‘appartenenze’, che pensa in proprio e, proprio per questo, Turnbull si augura di poter contare su di lui su alcune riforme che considera sufficientemente ragionevoli per essere approvate.

La Coalizione ‘ufficiale’ liberali-nazionali dunque, contro quella ‘non ufficiale’, ma sempre più evidente e consolidata, laburisti-verdi: in mezzo il NXT, almeno per ciò che riguarda i temi socio-finanziari delle spese di welfare da far rientrare, secondo la filosofia ‘dell’aiutare solo chi non è in grado di aiutarsi’, e le iniziative-manifesto delle ultime elezioni sul ripristino della Commissione di controllo del settore edile e la concessione di sgravi fiscali per le piccole e medie aziende. Il governo, infatti, farà bene a dimenticarsi di poter includere in quest’ultimo progetto (anche se rientrerebbe in una seconda fase ‘post’ prossime elezioni) anche le imprese con un giro d’affari superiore ai dieci milioni di dollari.

Gran finale di stagione quindi non appena si ritornerà in aula, con possibili risparmi di circa sette miliardi di dollari tra giri di vite su assegni e bonus famigliari e sussidi di maternità (altro infelicissimo capitolo di severità rivolta soprattutto ai più deboli) e braccio di ferro con l’opposizione su due iniziative per la quale Turnbull & Co. sostengono, a ragione, di aver ottenuto un chiaro mandato elettorale.

I ministri del Tesoro Scott Morrison e dell’Assistenza sociale Christian Porter non hanno nascosto le loro intenzioni di sedersi attorno al tavolo delle trattative con il senatore del South Australia, tenendo fede alla promessa del primo ministro, subito dopo la sua risicata riconferma, della strategia della maturità, del dialogo costruttivo con il ‘gruppo misto’ nel Senato per ottenere il via libera alla riforma del sistema sociale del Paese, con  spese in linea con quello che ci si può permettere e il mantenimento degli impegni presi con gli elettori.

Laburisti e verdi sono inamovibili nelle loro posizioni sullo ‘status quo’ per ciò che riguarda i sussidi di assistenza per famiglie, nonostante le statistiche tirate in ballo da Porter che ha fatto notare che al momento il governo sta spendendo annualmente 160 miliardi di dollari nel campo del welfare, una spesa equivalente all’80 per cento del totale delle entrate fiscali sul reddito. Ha rincarato la dose su una presunta ‘insostenibilità’ del sistema, sottolineando che il 48 per cento della popolazione australiana non paga nemmeno un centesimo di imposte, il ministro per i Servizi nel campo sociale, Alan Tudge che ha parlato di necessità di intervenire per far cambiare il modo di pensare di certe persone che considerano “i sussidi del welfare, non una rete di sicurezza, ma un obiettivo da raggiungere”.

Il governo quindi insiste sulla necessità di ridurre certi ‘diritti’,  correggendo una generosità cominciata, per motivi elettorali, all’epoca dell’ultimo governo Howard e piano piano entrata in una dimensione ‘fuori controllo’. L’ex ministro del Tesoro Joe Hockey ne aveva parlato, ricevendo ampi consensi, dai banchi dell’opposizione, ma al momento di mettere in pratica le sue considerazioni era andato completamente oltre i limiti di fattibilità e, soprattutto, aveva saltato a piè pari le spiegazioni e fallito il test dell’equità.

Rientro delle spese sì, ma senza compromettere la protezione e l’assistenza delle fasce più fragili della popolazione.  Attraverso gli anni indubbiamente si sono riversate nel sistema risorse importanti, ma c’è stata una specie di graduale sconnessione degli interventi: l’erogazione dei sussidi è diventata in qualche modo un processo automatico, quasi meccanico, invece che un processo ragionato e continuamente monitorato in base all’accertamento del ‘diritto’ e del ‘bisogno’, evitando sprechi e inefficienza.

Sistema quindi da rivedere, ma col freno a mano tirato perché il governo non dovrebbe solo pensare a come  ridurre la spesa, ma anche, e forse soprattutto, a come migliorarla.