Si è messo all’angolo da solo e adesso non sa come uscirne. Se qualcuno pensava che i liberali avessero usato tutte le cartucce possibili alla fiera dell’autolesionismo dello scorso agosto si è sbagliato di grosso. C’era ancora qualche colpo da sparare duellando sul problema che non c’era dell’ambasciata in Israele. L’opzione di spostare la sede di rappresentanza da Tel Aviv a Gerusalemme per salvare Wentworth è diventata improvvisamente una valanga che rischia di travolgere Scott Morrison, il suo governo e l’immagine internazionale del Paese.
A questo punto sarebbe interessante scoprire se la pessima idea di giocare la carta scarsamente diplomatica è stata tutta del primo ministro (come debito da pagare a qualcuno nelle concitate trattative per la leadership) o di qualche stratega che non si è reso conto delle possibili conseguenze di quel disperato tentativo di raccattare qualche voto in più a Wentworth. La morale di una brutta favola per Morrison è che ora ha imboccato una strada senza via d’uscita. Da valutare solo l’ammontare dei danni.
Il primo ministro ha promesso che darà una risposta definitiva sulla sede dell’ambasciata entro Natale quando si è incontrato con il presidente indonesiano Joko Widodo, giovedì scorso a Singapore, in occasione del vertice dell’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico), mentre resta in sospeso la firma del Trattato di libero scambio, un obiettivo raggiunto dopo otto lunghi anni di negoziati. Sedici miliardi di dollari ‘congelati’: Indonesia preoccupata e delusa e Malesia che entra in gioco per mettere in guardia Canberra. Anche Kuala Lumpur non gradisce, infatti, l’opzione sollevata dal primo ministro e lo ‘storico’ leader, Mahathir Mohamad ha tirato in ballo il ‘pericolo terrorismo’ a causa della possibile scelta australiana di intervenire sulla questione di Israele. Esagerati e inopportuni i commenti del 93enne Mahathir che da ricalcitrante dei tempi di Paul Keating è diventato antisemita secondo le dichiarazioni, altrettanto esagerate e inopportune, del ministro del Tesoro Josh Frydenberg. Un attacco che, data la posizione che ricopre, poteva tranquillamente evitare, che non ha fatto altro che creare un problema diplomatico in più per Morrison.
Il vice leader liberale, in un’intervista su Sky, non ha nascosto anche il suo pensiero sul futuro dell’ambasciata: “Un’ottima idea spostarla”, ha detto, assicurandosi di aggiungere che spetta comunque al primo ministro decidere. Un allineamento con conservatori d.o.c. come Tony Abbott, Michael Sukkar, Eric Abetz, Andrew Hastie e Jim Molan che hanno detto in coro che “più i nostri ‘vicini’ parlano di conseguenze per le nostre decisioni, più determinati dobbiamo essere nelle nostre scelte”. E via con le dichiarazioni di ‘bullismo’ da respingere, di ricatti da non accettare, di indipendenza decisionale, di valori, principi, alleanze ecc. Poi è arrivato il ‘moderato’ Christopher Pyne a fare ancora più confusione col suo intervento su un’ambasciata a Gerusalemme Ovest per Israele e una a Gerusalemme Est quando ci sarà un futuro Stato palestinese.
Perfino il normalmente prudente ex Pm, John Howard si è sentito in dovere di intervenire su un trasloco in stile Usa e Guatemala, le uniche due nazioni che hanno deciso di spostare l’ambasciata a Gerusalemme.
Morrison indubbiamente è andato a cercarsela e ora, sia che decida di andare avanti sia che scelga di lasciare le cose come stanno, dovrà spiegare perché e pagare le conseguenze. Se sceglierà di seguire Trump dovrà spiegare perché lo spostamento dell’ambasciata australiana in qualche modo potrebbe aiutare il cosiddetto processo di pace, cosa che non ha sicuramente fatto la decisione trainante di Washington. Dovrà anche spiegare se si è consultato con le agenzie di Intelligenze e i vertici della Difesa su una scelta che avrebbe certe ramificazioni nel campo della sicurezza. E dovrà soprattutto spiegare perché ha scelto di mettere a rischio anni di lavoro e i rapporti commerciali con l’Indonesia e la Malesia.
A parte il gruppetto dei soliti noti, che evidentemente non ha ancora deposto le armi, la maggior parte dei colleghi di Morrison si sta chiedendo perché il primo ministro è andato ad impelagarsi in questa vicenda elettoralmente inutile, mentre continuano a piovere buone notizie sul fronte che conta, quello di casa, che non vengono sfruttate al meglio, come un nuovo calo della disoccupazione e qualche segnale di movimenti all’insù sul fronte dei salari.
Da un problema ad un altro, trasferendosi da Singapore a Port Moresby dove l’Australia si è trovata nel bel mezzo del braccio di ferro tra gli Stati Uniti e la Cina. Morrison aveva preannunciato, in un chiaro posizionamento politico nel sud Pacifico (che evidentemente era già stato valutato e probabilmente coordinato da Washington), l’apertura di una base navale a Manus Island per ‘controllare’ l’espansione cinese nell’area del sud Pacifico. Il vice presidente Usa, Mike Pence ha ufficializzato il tutto dal podio del vertice Apec (Asian-Pacific Economic Cooperation), conclusosi ieri senza accordi e documento finale, promettendo la linea dura nei confronti di Pechino sia in campo strategico che commerciale. Un attacco frontale, al quale Morrison è stato praticamente costretto a fare eco, specie per ciò che riguarda la tattica adottata dalla Cina per portare avanti il suo progetto della “nuova via della Seta”, degli aiuti diretti o indiretti ai Paesi del Pacifico in quella che Pence, e poi Morrison, hanno etichettato la “diplomazia del debito” che metterebbe a rischio l’indipendenza delle Nazioni con iniziative di sviluppo infrastrutturale sponsorizzate da Pechino, secondo la “Belt and Road initiative” lanciata dal presidente Xi Jinping, nel 2013.
In un duro ping-pong di critiche, il leader cinese, in un suo intervento pre-vertice, aveva accusato l’America di essere impegnata in una guerra di dazi che va contro “le leggi dell’economia e le tendenze della storia…”, “un approccio miope destinato a fallire”.
“Dobbiamo dire no al protezionismo e all’unilateralismo”, ha detto Xi Jinping ai Paesi del Pacifico.
Nessuna risposta precisa invece all’idea della base navale di Lombrum che, secondo Morrison, è stata chiesta dal governo di Papua e che vedrà un coinvolgimento diretto degli Usa nel sud Pacifico dopo decenni di assenza. Ancora non chiari gli investimenti sia di Washington che di Canberra, ma pochi dubbi sull’obiettivo: tenere a freno Pechino.