“Me l’ha chiesto il presidente Widodo”. “Non era in programma parlare dell’ambasciata in Israele”. “Non lo farò più”. Il primo ministro Scott Morrison dopo essersi cercato un altro problema inviando Turnbull in Indoensia ha finalmente deciso di pensare al futuro. Ha puntato la sua attenzione all’area del Pacifico  annunciando che l’Australia costruirà una base navale a Manus Island, in Papua Nuova Guinea. Una tempestiva risposta al progetto di Pechino di costruire un nuovo porto sulla stessa isola.

“Me l’ha chiesto il presidente Widodo”. “Non era in programma parlare dell’ambasciata in Israele”. “Non lo farò più”. Il primo ministro Scott Morrison ha prima cercato di giustificare la decisione di mandare il suo predecessore, ‘avvelenato’ dal torto subito lo scorso agosto, a rappresentare il Paese ad un vertice su oceani e clima a Bali. Poi, imbarazzato dalla conferenza stampa post-missione, con tanto di critica nei suoi confronti, di Turnbull, ha cercato di spiegare che l’inviato speciale è andato oltre il suo mandato. Affermazione non vera che è durata il tempo di un tweet di risposta dell’ex primo ministro che ha assicurato di avere capito bene cosa gli fosse stato chiesto di fare e, finalmente, chiusura del deprimente siparietto con la conclusione più ovvia da parte del capo di governo: “Prima e ultima missione di rappresentanza per Turnbull”.

E già che c’era Morrison ha aggiunto l’invito al suo predecessore di fare quello che hanno saputo fare con un certo stile, alla conclusione più o meno brusca del loro mandato, solo John Howard e Julia Gillard. Un silenzioso farsi da parte accettando il verdetto degli elettori o dei colleghi. Un invito che non sarà raccolto a breve, dato lo spazio tutto per sé, che gli ha ritagliato l’Abc per giovedì prossimo, in prima serata, in un’edizione speciale di Q&A. Turnbull di nuovo mattatore del programma che gli è servito da trampolino di lancio per la sfida ad Abbott nel 2015 e poi, forse, un po’ meno tempo per i media di casa dato il contratto che gli è stato offerto dall’agenzia americana ‘Greater Talent’, che lo porterà in giro per il mondo a fare conferenze a 100mila dollari l’una. Non siamo ai livelli dell’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton che è arrivato a quota 750mila per intervento, ma è il doppio di quello che il ‘Washington Speakers Bureau’ ha offerto a Tony Abbott dopo la sua esperienza alla Lodge.

Giovedì quindi quasi certe fresche rivelazioni di ingiustizie, ambizioni, complotti e tradimenti vari, che in politica sono all’ordine del giorno, che Morrison, nel suo interesse dovrebbe cercare di ignorare concentrandosi sul futuro, per quanto complicato possa essere, tirando fuori un po’ di dinamismo extra e fissandosi obiettivi ben precisi, facilmente comprensibili da un elettorato turbato, stanco e disorientato.

Nessuno si aspetta rivoluzioni o l’inizio di un nuovo corso che non è mai stato preparato, anzi c’è probabilmente in giro un desiderio piuttosto comune di frenare gli eccessi, di una specie di pausa di riflessione per mettere a fuoco le cose che contano, i problemi di un presente in cui c’è la sensazione diffusa di restare indietro, di perdere la posizione sociale e il benessere guadagnati negli anni del boom minerario, che sono stati politicamente sperperati in un decennio da dimenticare. Dal 2009 in poi è stato, infatti, un susseguirsi di ambizioni messe apertamente in vetrina, di congiure di palazzo, di vendette inseguite con una determinazione devastante che hanno creato un profondo malessere nei confronti dei vari protagonisti e della politica in generale.

Da Kevin Rudd a Julia Gillard  - con lo zampino costante di Bill Shorten -, da Tony Abbott a Malcolm Turnbull tutti colpevoli e massima urgenza per un ritorno alla ‘normalità’, ad un tradizionalissimo dibattito senza urla e secondi fini, magari ricorrendo ad un pizzico di ovvietà.

Per Morrison ormai una sola strada da percorrere e, come più volte detto, da imboccare in fretta, perché sei mesi non sono molti per cercare di ritornare ad essere competitivi: per farlo non c’è altra scelta che dare l’impressione di seguire un filo programmatico semplice, netto e preciso, riportando ogni questione nei binari della logica e degli interessi della maggioranza degli elettori. Un conservatorismo senza eccessi, per colmare i vuoti lasciati da troppi mesi di confusione e incertezza politica. Più facile ovviamente da dire che da fare, ma Morrison ha una solida base di partenza dal punto di vista economico, che in Australia conta sempre parecchio: crescita, occupazione e conti di cassa migliori del previsto. Può chiedere un po’ di costruttivo silenzio alla sua squadra e una certa libertà d’azione per perseguire i suoi scopi, un tassello alla volta, senza bisogno delle improvvisazioni a cui ha fatto inutilmente ricorso durante la campagna di Wentworth.

La scorsa settimana ha dato l’impressione di saperlo e poterlo fare con un intervento di un certo spessore nel campo della politica estera, su un tema delicato come quello della Cina, con la quale per ovvi motivi economici e strategici è necessario mostrare allo stesso tempo apertura e prudenza. Morrison, mettendo da parte la questione dell’ambasciata in Israele (forse ha capito che il trasloco non sposta consensi), ha puntato la sua attenzione sull’area del Pacifico, annunciando che l’Australia costruirà una base navale a Manus Island, in Papua Nuova Guinea. Un annuncio sicuramente legato all’ipotesi cinese di costruire un porto sulla stessa isola. La spesa prevista è di circa 100 milioni di dollari. “Ed è solo l’inizio”, ha detto Morrison, che si è riservato di dare un quadro più chiaro della nuova strategia di Canberra al prossimo vertice dell’Apec che si terrà a fine mese proprio a Papua, perché l’area in questione è diventata una delle priorità dell’Australia in risposta ai massicci investimenti di Pechino, che sta costruendo strade, ponti, parchi industriali, porti in diverse mini-nazioni del Pacifico, parte di una strategia espansionistica che “non si può continuare ad ignorare”, ha spiegato Morrison.

Bill Shorten, una volta tanto, è perfettamente d’accordo col primo ministro, tanto da proporre addirittura la creazione (senza fornire però alcun dettaglio in merito) di una banca per gli investimenti infrastrutturali nei Paesi del Pacifico, anche se qualcuno gli ha fatto osservare che sia la Banca Mondiale sia l’Asian Development Bank forniscono già un servizio mirato per lo sviluppo dell’area in questione. Ma la Pacific Bank potrebbe velocizzare i progetti, sostiene Shorten, dando un opportuno vantaggio agli investitori australiani. Un approccio differenziato ma con fini bipartisan, con il chiaro intento cioè di giocare d’anticipo per tenere strategicamente ‘sotto controllo’ (e non sono certamente escluse delle linee-guida di Washington) il principale partner commerciale del Paese, cercando di dare il meno possibile l’impressione di farlo.