L’ex ministro del Tesoro laburista Wayne Swan ha twittato che la decisione di Scott Morrison su Ausgrid è corretta. Che sono stati applicati gli stessi principi che erano stati adottati dal governo Gillard. Il portavoce ombra del Tesoro Chris Bowen è d’accordo. Due pareri, che arrivano dal fronte dell’opposizione, che dovrebbero scoraggiare qualsiasi tentativo di “leggere” in chiave politica lo stop ordinato da Canberra agli investimenti cinesi nella più grande ed importante rete di distribuzione dell’energia elettrica (ma anche dei servizi di telecomunicazioni) del continente.
Un ‘no’ ai maxi investimenti della China’s State Grid Corp e della Hong Kong’s Cheung Kong Infrastructure Holding nel New South Wales che creerà inevitabili nuove tensioni con il più importante partner commerciale dell’Australia e non pochi problemi di budget al governo Baird, che punta sulla privatizzazione delle rete elettrica dello Stato per finanziare il suo vasto programma di sviluppo delle infrastrutture.
Un ‘no’ che non ha assolutamente nulla a che fare, come qualcuno ha cercato di sostenere, con ‘paure’ e opportunismo in relazione al nuovo Senato e alle tendenze protezionistiche di Pauline Hanson (One Nation) o di Nick Xenophon (NXTeam). La politica di casa non c’entra, c’entra solo la sicurezza nazionale tanto che il nuovo governo ha voluto nel direttivo del Foreign Investment Review Board (FIRB) l’ex capo dei Servizi segreti, David Irvine, e l’esperto di politiche ed investimenti nel campo della Difesa, nonchè ex dirigente della compagnia mineraria Rio, David Peever. Un aggiustamento ad alto livello dei metodi e del personale per un ente che deve aiutare il governo a valutare non solo i benefici pratici, ma anche gli eventuali rischi di importanti investimenti in modo di non ripetere quella che lo scorso anno è stata considerata, anche dalla Casa Bianca, una decisione estremamente pericolosa e non certo in linea con le priorità strategiche dell’alleanza Australia-Usa nell’area dell’Asia e Pacifico: fa infatti ancora discutere, e disturba non poco il Pentagono, la concessione della gestione, per 99 anni, del Porto di Darwin ad un gruppo imprenditoriale cinese con fortissimi legami ‘militari’ e con il direttivo del Partito Comunista. L’accordo era stato preso dal governo del Territorio del Nord, ma era stato approvato da Canberra senza alcuna consultazione o previa comunicazione con Washington e Obama l’aveva fatto notare, senza nascondere preoccupazione e disappunto, a Malcolm Turnbull durante un colloquio ai margini del vertice dell’Apec in Malesia. Infelice, in quell’occasione, il tentativo di sdrammatizzare del primo ministro ricorrendo alla battuta di processo decisionale ampliamente pubblicizzato, con tanto di suggerimento ai vertici del Pentagono di abbonarsi al quotidiano del Territorio, NT News. Nessuno a Washington, Obama compreso, aveva trovato il commento particolarmente divertente.
Lezione imparata in fretta con un ‘alt’ che Turnbull, questa volta con la massima serietà, ha spiegato parlando di decisione raggiunta “inequivocabilmente sulle basi delle informazioni fornite dalle agenzie nazionali sulla sicurezza”. “Nessuna scelta politica”, ha assicurato il primo ministro, perché “ogni transazione internazionale, ogni investimento, viene valutato singolarmente per i propri meriti”. In altre parole, sulla maggiore rete elettrica del Paese, niente controlli esteri. Pechino lo prenderà come un affronto perché la decisione di Canberra verrà sicuramente interpretata come una mancanza di fiducia nei confronti di un partner vitale per il Paese, proprio a ridosso della firma del trattato di libero scambio. Anche se il ‘no’ rientra negli accordi che prevedono agevolazioni per gli investimenti, ma la richiesta di autorizzazione federale per qualsiasi iniziativa del valore superiore al miliardo di dollari, 515 milioni nel caso di terreni agricoli.
Inevitabilmente nella Repubblica popolare si parlerà di pressioni di Washington, ma è una inevitabilità con cui Canberra dovrà abituarsi a convivere. Primo partner commerciale sì, ma non primo partner strategico, quindi investimenti cinesi più che ‘benvenuti’, ma sempre da prendere con le dovute riserve in campo infrastrutturale e in quello delle comunicazioni.
Nel 2012 il governo Gillard aveva infatti già bloccato la partecipazione della Huawei, la più grande compagnia cinese nel settore delle telecomunicazioni, nella gara d’appalto per la stesura dei cavi della rete nazionale di Internet a banda larga. Un ‘no’ che non aveva stupito solo Pechino, ma anche i liberali. Turnbull, nel 2013, appena diventato ministro delle Comunicazioni nel nuovo governo di Coalizione, aveva infatti parlato di revisione della decisione, ma il primo ministro Tony Abbott, dopo una consultazione con l’ASIO, era direttamente intervenuto sull’argomento escludendo qualsiasi riapertura della gara d’appalto.
La Cina è commercialmente un alleato indispensabile dell’Australia. I destini economici del paese sono legati a quelli cinesi. Gli investimenti di Pechino sono una necessità e non c’è assolutamente spazio per alcuna forma di protezionismo o di sentimenti anti-cinesi, ma dal punto di vista politico e militare gli interessi australiani si rivolgono principalmente agli Stati Uniti e tutti i giocatori in campo sanno benissimo che, di tanto in tanto, ci saranno differenze e tensioni. Come quelle che nasceranno dalla scelta di Morrison che politicamente si ritrova con il problema in più di non poter spiegare nei dettagli i motivi della sua decisione: sia gli australiani che i cinesi dovranno accontentarsi dei vaghi “motivi di sicurezza” che l’hanno spinto a bocciare quello che sarebbe probabilmente stato uno dei più grandi investimenti esteri nella storia del Paese. La trasparenza in questo caso non ci sarà proprio perché i “motivi di sicurezza” la vietano.
Pechino insomma potrà anche indignarsi, minacciare e probabilmente anche prendersi qualche rivincita e concedersi qualche reazione “punitiva” nei confronti di Canberra, ma dovrà accontentarsi per ora di controllare il Porto di Darwin e mandare i suoi cittadini in vacanza nel nuovo ‘resort’ che farà sorgere sulla appena acquistata isola di South Molle, nelle Whitsundays. Sue anche vaste aree di pascolo (quest’anno con la stessa motivazione degli ‘interessi nazionali’ Morrison ha bloccato una cordata guidata dalla Shanghai Pengxin Group, intenzionata a comprare l’80% dell’allevamento più grande del Paese, il Kidman & Co.) e interessi crescenti per terreni agricoli, servizi sanitari, settore minerario, con investimenti sempre più massicci in campo immobiliare.
La Cina sta facendo ‘shopping’ in tutto il mondo: nel 2015 è diventata il primo investitore estero del Pianeta. In Australia nell’ultimo anno ha più che raddoppiato i suoi investimenti portandoli alla cifra record di 15 miliardi. Con obiettivi di spesa spesso ben precisi. Morrison questa volta ha fatto centro.