MELBOURNE - Cortei anti Trump a Washington, Londra, Parigi, Berlino, ma anche a Melbourne. In questo ultimo  caso di mezzo oltre alla decisione di bloccare l’arrivo in America di persone provenienti da alcuni Paesi a maggioranza musulmana (il bando è stato sospeso venerdì scorso dal giudice federale James L. Robart e ieri è stato respinto il ricorso del Dipartimento della Giustizia, presentato attraverso una procedura d’emergenza, per il ripristino immediato dell’ordine esecutivo di Trump), anche il ‘trattamento’ che il presidente americano ha riservato al primo ministro Malcolm Turnbull e all’Australia nell’ormai famosa conversazione telefonica di domenica 29 gennaio.

Una ‘mancanza di rispetto’ che qualcuno ha fatto pervenire al ‘Washington Post’ e che ha fatto il giro del mondo. Una figuraccia per Trump che, a 24 ore di distanza, ha cercato di ‘rimediare’ con la storia delle ‘fake news’, e con un ‘tweet riparatore’ nei confronti dell’alleato di sempre (l’Australia) e del suo capo di governo, al quale ha fatto i complimenti per avere detto la verità (toni accesi, ma conclusione cordiale) sulla telefonata incriminata.

Peccato che nel mezzo di tutto questo ci sia stato un altro ‘tweet’ del presidente su un “accordo stupido”, che avrebbe rivisto, e sulla peggior telefonata avuta nella giornata di domenica (29 gennaio), con un leader straniero.

Trump insomma sta semplicemente dimostrando di essere quello che un po’ tutti si aspettavano e qualcuno alla Casa Bianca ha cercato di aiutarlo con quella fuga di notizie o di danneggiarlo. L’accordo stipulato da Obama per accogliere circa 1250 rifugiati detenuti nei centri offshore australiani di Nauru e Manus Island, comunque per il momento ‘tiene’, nonostante la bagarre mediatica (anche se ci saranno controlli extra sulla legittimità dello status di profughi stabilito ‘down under’) scatenata da rivelazioni che, per l’appunto, o avevano lo scopo di difendere Trump da possibili critiche per un abbassamento della guardia non voluto per ciò che riguarda la linea dura anti-immigrati, o quello di dimostrare, una volta di più, l’arroganza e l’imprevedibilità, senza un minimo di riguardo per nessuno, del nuovo presidente.

 Il ‘bullismo’ di Trump, anche se in un primo momento ha regalato a Malcolm Turnbull una giornata da dimenticare, alla lunga, data la sua ‘reazione’ quanto mai ‘diplomatica’ senza mai perdere di vista i risultati pratici dello scontro a distanza (la Casa Bianca, seppur a malincuore, ha confermato che onorerà l’impegno preso con Canberra), non danneggerà il primo ministro, anzi probabilmente lo farà recuperare qualche punto simpatia. A meno che non se li giochi subito riaprendo la porta, sotto la spinta - almeno secondo le rivelazioni dei domenicali del gruppo Fairfax - di uno sparuto numero di contestatori all’interno del suo partito che sembra intenzionato a riaprire il controverso capitolo dei matrimoni gay e del voto in Parlamento, possibilmente prima del budget di maggio.

Turnbull deve spegnere sul nascere qualsiasi ipotesi di ripensamento: il plebiscito, a prescindere dalla bontà dell’idea, era quanto promesso dalla Coalizione nella campagna elettorale dello scorso anno. Il governo, mantenendo fede al suo programma, ha portato il progetto in Aula e verdi, laburisti e qualche indipendente l’hanno respinto: fino alle prossime elezioni non è il caso di riparlarne altrimenti “ti saluto Turnbull”. E dato che il tema è il più ‘secondario’ (meno che per i diretti interessati ovviamente) dei problemi da affrontare, gli avvertimenti del sempre pronto a farsi sentire Tony Abbott, sono abbastanza superflui a meno che qualcuno in casa liberale non abbia davvero scelto la strada del suicidio politico o sia partita una vera e propria campagna di destabilizzazione nei confronti dell’attuale leader.

I toni e gli insulti dell’ormai famosa telefonata di Trump, condannata senza riserve dal capo dell’opposizione Bill Shorten che ha ‘chiesto’ a voce alta al presidente Usa di mostrare maggior rispetto per il primo ministro e l’Australia, alla fine hanno dato una mano a Turnbull che non ha certamente sfruttato al meglio l’opportunità di riaprire, con una partenza degna di nota, la nuova stagione politica presentando un programma ben preciso di cose da fare, traguardi e aspirazioni.

Il suo intervento al Circolo nazionale della stampa di mercoledì scorso è stato in perfetto stile Turnbull: bilanciato, moderato, senza sorprese e alcuna visione del domani. Un continuare a parlare di lavori, deficit, istruzione, stimoli fiscali, asili nido senza dimostrare di avere capito che qualcosa è cambiato, che gli australiani hanno bisogno di sentirsi coinvolti ed ascoltati, oltre ad attendere prospettive vere che vadano al di là delle prossime elezioni.   

Mercoledì però era anche il giorno che la Commissione elettorale aveva fissato per rendere note le donazioni politiche dell’anno finanziario 2015/16.

Giovedì, almeno nei piani di Turnbull, la sua ‘agenda’ sarebbe stata piena di impegni per ‘vendere’ il progetto minimalista, ma incredibilmente il primo ministro e chi lo consiglia non avevano fatto i conti con l’interesse che c’era, almeno nella Canberra dei media, di sapere finalmente quanti soldi il primo ministro aveva privatamente (e legittimamente secondo le regole australiane) donato per sostenere la sua stessa campagna elettorale. Domanda abbastanza scontata nel ‘question time’ al Circolo della stampa e assurdo tentativo del capo di governo di ‘resistere’, complicandosi inutilmente la vita. Solito errore dei politici: rinviare l’inevitabile, tanto da essere costretto nella stessa serata di mercoledì di svelare il ‘gran segreto’ del milione e settecentocinquantamila dollari versato nelle casse liberali per la campagna del 2016. Se l’avesse fatto qualche mese fa avrebbe evitato che, giovedì scorso, i giornali, le radio e le tv invece di parlare del suo manifesto programmatico, per quanto scarso sia, raccontassero della sua generosità, permettendo ai laburisti di ‘filosofare’, senza molta fantasia, sulle ‘elezioni comprate’. Un fiasco strategico di notevoli proporzioni a cui ha rimediato inconsapevolmente Trump.

Come in qualche altra occasione nel passato, dopo le critiche Usa,  qualche rimostranza d’ufficio sulla solidità e l’importanza di una storica alleanza, sottolineando valori condivisi, lealtà, fedeltà provata e riprovata accettando di partecipare anche a guerre impopolari come quella del Vietnam o quella, iniziata sotto i falsi pretesti delle armi di distruzione di massa di Saddam, dell’Iraq, ma in termini pratici non succederà’ nulla per mutua convenienza strategica che va ben oltre gli inquilini (di qualsiasi momento) della Casa Bianca e della Lodge.