L’ha detto anche il primo ministro della Nuova Zelanda, Jacinda Ardern, quindi ci siamo. All’inizio del vertice del Pacifico di Tuvalu la leader più apprezzata del momento, grazie a come ha saputo gestire con grande equilibrio e sensibilità il ‘dopo-massacro’ di Christchurch, aveva invitato l’Australia a fare di più sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici.

Da Sydney il conduttore radiofonico Alan Jones (altro servizio a pag. 11) aveva subito ‘risposto’ mostrando, per l’ennesima volta, come la pensa sulle donne-leader. Morrison lo ha immediatamente criticato, alcuni importanti inserzionisti hanno sospeso i loro contratti pubblicitari con Macquarie Media che ha fatto ricorso all’ultimatum nei confronti del popolare presentatore.             

Un altro commento di questo tipo e fine del contratto. Jones prima ha cercato di ridimensionare l’accaduto, parlando di un’interpretazione sbagliata dei suoi commenti, poi si è scusato apertamente con la Ardern per quello che aveva detto. Data la pluri-recidività su tutti i fronti (commenti pesanti e inappropriati, inserzionisti che prendono momentaneamente le distanze, direzione che si indigna, ma livello di ascolti impossibile da non prendere in considerazione) difficile credere davvero che non succederà più. Comunque, Ardern sembra avere accettato le scuse della ‘calza in gola per farla tacere’ e ha anche accettato la realtà di un’Australia che, come tutte le altre nazioni coinvolte nel forum di Tuvalu, era soprattutto impegnata a difendere i propri interessi. Quindi ci sta che il documento finale sugli obiettivi climatici non comprenda una completa rinuncia al carbone entro il 2050 né per quanto riguarda l’export, né per l’uso interno per la produzione di energia. Una clausola del genere, ha detto ieri il ministro ombra degli Esteri Penny Wong, non l’avrebbe firmata nemmeno un governo laburista, nonostante le sue immutate ambizioni programmatiche di ridurre le emissioni ben al di là dei traguardi fissati a Parigi, che rimangono invece l’obiettivo di Morrison.

Il primo ministro insomma ha fatto quello che si era impegnato a fare prima della partenza per l’atollo del Pacifico: nessun aggiustamento di rotta dal punto di vista dei davvero minimi programmi ambientali del suo governo e mantenimento dell’attenzione sull’aspetto finanziario, sugli aiuti pratici alle nazioni del Pacifico, con il doppio obiettivo di mantenere il ruolo di Paese guida nell’area geografica in questione e tenere sotto scacco le ambizioni cinesi. Il capo della Coalizione ha mosso anche una velata critica ai leader presenti al Forum dichiarando che, evidentemente, non sono abbastanza informati su quello che l’Australia sta facendo in campo ambientale, in quanto è la nazione al mondo che spende di più, pro capite, per lo sviluppo di energie rinnovabili. “L’Australia - ha aggiunto Morrison nel suo intervento - è responsabile per l’1,3 per cento delle emissioni globali ed è perfettamente in linea con gli obiettivi di riduzione dei gas serra, stabiliti a Kyoto (per il 2020) e  a Parigi (per il 2030), del 26 per cento al di sotto dei valori del 2005”.

Altri Paesi come Cina e India, nello stesso periodo triplicheranno le loro emissioni e, come sottolineato dal ministro degli Esteri della Nuova Zelanda Winston Peters, nonostante l’invito a Canberra di fare di più di quello che sta facendo, è doveroso riconoscere che se anche l’Australia, per assurdo, bloccasse tutte le sue centrali di carbone, in solo sei giorni di produzione energetica la Cina avrebbe annullato lo sforzo.

Morrison ha quindi insistito su quello che Canberra può davvero fare e sta facendo per aiutare le nazioni del Pacifico con investimenti record sia per lo sviluppo di energie alternative che di infrastrutture in generale e la protezione della pesca per migliorare la qualità di vita in queste mini-nazioni, sempre all’insegna della massima trasparenza, al contrario dell’offerta di Pechino sempre legata invece a secondi e mai dichiarati fini.

Morrison, commentando le critiche ricevute dai Paesi del Pacifico per l’annacquamento del documento finale per quanto riguarda i cambiamenti climatici, ha retoricamente detto: “Chiederanno anche alla Cina di ridurre il numero delle sue centrali a carbone?”

Dal punto di vista dei consensi il primo ministro non esce sicuramente male dalla tre giorni di Tuvalu: prima gli interessi dell’Australia, poi gli aiuti a sostegno di piccole ma importanti democrazie e il mantenimento di un diplomatico e strategico controllo di un’area in cui Canberra sta curando anche gli interessi di Washington.

Ardern alla fine ha accettato la realtà dei fatti, schierandosi a fianco di Morrison per ciò che riguarda l’impossibilità di inserire il capitolo carbone nel documento finale del summit che si è concluso con una nota decisamente stonata, che lascerà comunque il tempo che trova:  il primo ministro di Fiji Frank Bainimarama ha infatti accusato Morrison di spingere, con la sua reticenza, le nazioni del Pacifico nelle braccia di Pechino e ha addirittura invitato gli altri leader ad espellere l’Australia dal vertice del prossimo anno.

Esagerazioni inappropriate, ma rischio vero di regalare, tra proteste e critiche, maggiori spazi alla Cina che non aspetta altro per continuare nel suo programma di espansione nella regione.

Tempi complicati su più fronti per Morrison, compresa la guerra dichiarata a GetUp per limitare l’influenza politica di un gruppo di militanti che ha investito diversi milioni nell’ultima campagna elettorale in seggi detenuti da candidati conservatori di primissimo piano come Tony Abbott, Peter Dutton, Josh Frydenberg, Kevin Andrews e Greg Hunt. Il leader del movimento di protesta Paul Oosting ha parlato di plateale ipocrisia di Morrison che “da una parte difende i diritti democratici di manifestare degli studenti di Hong Kong e dall’altra nega lo stesso diritto di protesta nei confronti del governo di GetUp”.

“Attenzione ad un lupo vestito da agnello”, ha detto il primo ministro, insistendo sulla necessità di registrare l’organizzazione in questione, date le sue  caratteristiche, come un vero e proprio partito politico, cosa che la renderebbe più scrutinabile dal punto di vista degli obiettivi che si prefigge e i finanziamenti che ottiene, con precise regole di  gestione. La Commissione elettorale ha già preso tre volte in esame la struttura di GetUp e ha sempre bocciato l’idea del partito. Una quarta verifica, ha detto Oosting, sarebbe “una forzatura politica e un vasto spreco di soldi pubblici”. Senza mire parlamentari dirette probabilmente ha ragione, ma dopo quanto visto lo scorso maggio, è anche comprensibile la voglia di fare qualcosa di Morrison.