Tutto chiaro a Wentworth sabato sera. Ieri mattina qualche certezza in meno, nel pomeriggio ancora qualche piccolo dubbio. Non c’è ancora un verdetto ufficiale, dato che ci sono almeno altri 4000 voti postali da prendere in considerazione, ma il vantaggio accumulato da Kerryn Phelps dovrebbe essere sufficiente a garantirle il seggio lasciato vacante dall’ex primo ministro Malcolm Turnbull. Lo spostamento di voti a favore dell’ex presidente dell’AMA (Australian Medical Association) sembra ora sceso dal 20 per cento, indicato sabato sera, al 18 per cento, un risultato comunque devastante per i liberali. Quasi cinque volte la media di qualsiasi suppletiva, il peggior risultato ottenuto, in una prova supplementare, da un governo in carica.
Ben poche responsabilità per la quasi certa sconfitta da attribuire al candidato liberale, Dave Sharma, che di aiuti dal partito ne ha ricevuti ben pochi.
Phelps, sabato sera, celebrando la vittoria ha parlato - con toni comprensibilmente euforici in base ai dati che arrivavano dalle urne - di una sfida tra ‘Davide e Golia’. E ci sta tutto come ‘simbolismo’ se ci si limita al fattore delle risorse di un partito, come quello liberale, e quelle, abbastanza improvvisate, a sua disposizione per la campagna, ma con gli umori che circolano nell’elettorato australiano alla fine il Golia era lei e il Davide era Sharma, costretto a fare i conti con la delusione, l’insoddisfazione ai limiti della rabbia nei confronti di un partito che sembra continuare a non capire, a non ascoltare e a non vedere ciò che sta fuori del suo mondo. Troppo preso dai suoi interessi per curarsi degli interessi di chi dovrebbe conquistare e rappresentare.
Sharma ha raccolto circa il 43 per cento dei consensi diretti (dati AEC alle 19 di ieri, con il 75 per cento dei voti scrutinati), Phelps il 29,1 per cento, mentre il laburista Tim Murray ha poco da stare allegro con il suo 11,5 per cento. Subito dopo il verde Dominic Wy Kanak con l’8,6%. La distribuzione dei voti preferenziali, com’era nelle previsioni, ha favorito nettamente la sfidante anche se, a questo punto, non è chiara ancora la percentuale di un vantaggio che ieri sera si aggirava attorno ai 1600 voti, dopo che alla mattina si era ridotto a poco più di 800. Niente effetto valanga insomma, come in un primo momento ipotizzato, ma comunque vittoria che potrebbe consolidarsi, in percentuale, con un 51 a 49 finale.
Sembra quindi quasi certo che il cuscinetto personalissimo del 17,7 per cento di Malcolm Turnbull non sia bastato a proteggere un collegio dove l’ex primo ministro era veramente di casa e il trattamento che i colleghi gli hanno riservato non è stato minimamente apprezzato e condiviso. Non aspettavano altro che di poterlo dimostrare e con un’indipendente di peso come Kerryn Phelps il loro compito è stato solo agevolato.
Liberali, comunque sia, severamente puniti e il primo ministro Scott Morrison ieri ha confermato che, sotto sotto, se lo aspettava, ma ha assicurato che il partito ha capito il chiaro messaggio che è arrivato da Wentworth e che da “domani (oggi per chi legge, ndr) il governo si metterà al lavoro per rimediare, continuando a dialogare, come ha sempre fatto, con gli indipendenti”. Non una scelta, ma un vero e proprio obbligo dato che, se sarà confermata la vittoria di Phelps, la Coalizione si ritroverà con soli 75 rappresentanti alla Camera, contro i 69 dei laburisti e una squadra ‘mista’ salita a quota sei: Phelps andrà infatti ad aggiungersi a Bob Katter del Katter Australia Party, al verde Adam Bandt, a Rebekha Sharkie del Centre Alliance e agli indipendenti Cathy McGowan e Andrew Wilkie.
Phelps aveva già promesso durante la campagna che, entrando in Parlamento, non avrebbe ostacolato l’operato del governo e votato per una mozione di sfiducia nei confronti dell’esecutivo, se non in particolari circostanze impossibili da ipotizzare. Concetto ribadito nella prima intervista da nuovo rappresentante (ieri mattina alle 9 non c’era il minimo dubbio sulla sua vittoria) del seggio di Wentworth. C’è da crederle sotto tutti i punti di vista, compreso quello dell’interesse personale di non dover tornare alle urne prima dello stretto necessario, cioè in aprile o maggio del prossimo anno.
Turnbull intanto potrà finalmente tornare a casa, dopo la sua lunga ‘vacanza’ a New York e una breve sosta a Singapore, a prendersi un’altra dose di critiche da parte di chi non lo ha mai potuto sopportare. Quella destra del partito che ha forzato la sua prematura uscita di scena e che ora, incredibilmente, lo accusa di ‘tradimento’ perché non ha voluto essere della partita nella campagna per la difesa del suo ex seggio. Lo hanno voluto fuori perché non era ‘adeguato’, perché con lui al timone il naufragio elettorale era considerato inevitabile e ora, improvvisamente, la sua assenza, la sua mancanza di sostegno nei confronti di Sharma avrebbe danneggiato il partito. “Non un tweet, non una lettera diretta ai suoi vecchi elettori per incoraggiarli a votare per il suo sostituto”, hanno detto in molti. Ma se lo aspettavano davvero o è giusto un’altra scusa per continuare la loro guerra nei confronti dell’ex primo ministro?
I liberali, anche nella campagna di Wentworth, hanno mostrato di avere chiari limiti tattici e di essere i più agguerriti nemici di se stessi. Si sono lasciati trascinare, via fuga di notizie, nel dibattito sulla cosiddetta libertà di religione da ‘proteggere’ da chissà quale pericolo, mettendo in evidenza falle già esistenti nel campo della discriminazione per ciò che riguarda le scuole gestite da enti religiosi. Hanno poi appoggiato la mozione a sfondo razziale di Pauline Hanson, con la susseguente incredibile scusa dell’errore, evidentemente di massa, ‘guidato’ da un sempre più emarginato Mathias Cormann, dopo la sua scelta di forzare il voto sulla leadership di Turnbull, con tutte le conseguenze del caso. Quindi, ‘dulcis in fundo’ di una nuova settimana di autolesionismo politico, la grande idea salva-voti a Wentworth (che ha probabilmente avuto l’effetto esattamente contrario) del possibile trasloco da Tel Aviv a Gerusalemme dell’ambasciata australiana in Israele. L’esempio Trump magari stuzzica qualche elettore del Queensland, ma non ha sicuramente lo stesso effetto a Melbourne o Sydney.
Divisioni, rivalità personali, caos tattico e programmatico, esattamente come ai tempi di Julia Gillard e Kevin Rudd, con gli elettori che, ancora una volta, potrebbero avere già deciso il da farsi. I laburisti, vorrebbero dar loro la possibilità di dimostrarlo già a gennaio, ma per farlo avrebbero bisogno non solo dei sei voti del gruppo misto ma anche di uno della Coalizione. Niente è impossibile in politica, ma almeno qualcosa è altamente improbabile.