Sono cambiati davvero i tempi anche per quanto riguarda la politica in Australia: è finita l’era della relativa semplicità, della chiarezza, del risultato che assegna ad un partito il mandato di guidare il Paese per i prossimi tre anni e all’opposizione il compito di ‘vigilare’, correggere, migliorare le iniziative che, nella stragrande maggioranza dei casi, rientravano nei programmi elettorali.
Non mancavano di certo gli scontri, le barricate ‘politiche’, le bocciature, ma senza mai scendere ai toni e al costante opportunismo di oggi. Poi sono arrivati i verdi con le loro prerogative ambientali, quindi i democratici che, nel 1999, si sono sentiti abbastanza ‘maturi’ da decidere, senza il consenso dei loro elettori, di appoggiare la riforma fiscale voluta da John Howard: è andata bene al Paese, ma non al partito che ha cominciato una veloce discesa verso l’irrilevanza.
Storia a sé quella di One Nation, spuntato dal nulla, ben presto disintegratosi tra scandali, divisioni e condanne e rimesso in piedi vent’anni dopo, perché i tempi sono quelli che sono, dalla stessa leader della ‘prima volta’ che però, dopo aver dato l’impressione per un momento di aver imparato qualcosa, si ritrova nuovamente invischiata in presunte ‘irregolarità’ di gestione, alle prese con colleghi che mettono in evidenza approssimazione, instabilità e limiti di un partito che gioca solo sulla protesta, sulla rabbia, sul disorientamento di cittadini, per lo più nelle aree rurali del Queensland e del New South Wales, attratti dal linguaggio schietto e dalle risposte facili ed immediate a qualsiasi problema. Un ‘One Nation II’ che sembra già avere imboccato, a meno di un anno da un incredibile successo elettorale, la stessa strada del Palmer United Party del 2013, sciolto per mancanza di tutto (progetti, seguito, un minimo di qualità).
Comunque il lungo preambolo per ritornare alla questione della fine dell’era della stabilità, delle idee, delle cose che si fanno e che, se non si fanno bene, si pagano le conseguenze alle urne con la possibilità di passare la responsabilità agli ‘altri’, che una volta non gridavano così tanto e non davano l’impressione di essere sempre così negativi, seguendo la relativamente nuova moda lanciata da Tony Abbott che più di offrire alternative concrete, punta tutto sull’insistere che è l’avversario a non averne.
Dal 2004 in poi c’è stato un progressivo declino delle certezze, della fiducia, è cresciuta l’insofferenza popolare ed è aumentato il distacco tra la classe politica (scesa drammaticamente di qualità) e i cittadini che, turbati dal vuoto di idee, hanno seguito il flauto magico di chi sbandiera soluzioni semplicistiche di fronte alla complessità della realtà: partitini e indipendenti sono arrivati in Parlamento con un potere che mai più si aspettavano di avere.
La Coalizione e il Partito laburista è ormai da più di un decennio che hanno perso qualsiasi senso di direzione, qualsiasi capacità di sviluppare un progetto: si procede a strappi e tentoni, senza alcuna visione del futuro che non sia quello strettamente elettorale. Una mentalità condivisa, purtroppo, dalle maggiori forze politiche: tutto si è uniformato al punto che è ormai difficile cogliere l’essenza dei problemi o capire chi sia nel giusto o no. L’ultimo budget è l’esempio più evidente di questa convergenza sempre ovviamente negata, tanto che Bill Shorten e Chris Bowen per andare a cercare di differenziarsi sono stati costretti a contraddire le loro stesse idee o ricorrere ad artificiosi eccessi. Parlare di portare la tassazione per la fascia più alta di reddito (dai 180mila dollari in su) quasi al 50 per cento non è certo una soluzione particolarmente ‘costruttiva’; imporre un aumento della trattenuta del Medicare, pro-NDIS (assicurazione sanitaria per le disabilità), solo a chi guadagna più di 87mila dollari l’anno fa a pugni con la teoria dell’equità e dello stesso concetto (laburista) dell’universalità del sistema sanitario nazionale; raddoppiare il costo dei visti per i lavoratori stranieri ed insistere sullo spendere più del necessario, anche secondo l’artefice del progetto (David Gonski) che era diventato prima la bandiera di Gillard, poi di Rudd e ora di Shorten della scuola delle ‘pari opportunità’ di apprendimento a prescindere dall’indirizzo e le possibilità finanziarie delle famiglie di chi la frequenta, sembrano esclusivamente espedienti per cercare di ritagliarsi spazi mediatici e racimolare qualche voto della ‘nuova era’.
Un Partito laburista che non riesce a svincolarsi dall’influenza sindacale, che continua ad avere un peso sproporzionato nelle sue decisioni nonostante ormai rappresenti meno del dieci per cento (non è un bene, ma una realtà) della forza lavorativa australiana, mentre la Coalizione nel tentativo di ‘piacere’ non sembra più trovare i vecchi equilibri tra liberali e conservatori, le sue due anime.
Più di un decennio di incertezze di governi (dall’ultimo Howard all’attuale, passando per sei diversi primi ministri) deboli, tormentati da divisioni interne che hanno portato a cambi in corsa di leader non autorizzati dagli elettori, che non hanno apprezzato il nuovo stile del ‘ci pensiamo noi’.
Un’atmosfera di uniformità ribadita anche sabato scorso alla fine della tre giorni di Uluru (e in occasione del 50esimo anniversario del referendum del ’67, quando gli australiani si espressero a larga maggioranza per includere gli aborigeni nel censimento e permettere al governo di formulare leggi speciali a loro favore), dove i rappresentanti della comunità indigena hanno discusso del possibile referendum per modificare la Costituzione, includendo il riconoscimento della popolazione aborigena nel documento-guida del Paese. Il modello minimalista è stato respinto praticamente all’unanimità: gli aborigeni intendono infatti chiedere una svolta vera, con la creazione di un organismo di rappresentanza, inserito nella Costituzione, e un trattato ufficiale con il governo federale. Bill Shorten ha lasciato la porta aperta a future trattative, senza impegnarsi ufficialmente a seguire la strada indicata nel documento uscito dal vertice di Uluru. Il primo ministro Malcolm Turnbull invece, intervenendo alle celebrazioni dell’anniversario del referendum, ha sottolineato che su questo tema il parlamento non ha poteri decisionali, che spetta a tutti gli australiani decidere il da farsi, ma ha ’avvertito’ che in un Paese tradizionalmente conservatore come l’Australia, i cambiamenti che saranno proposti devono incontrare un solido consenso e una minima resistenza per avere veramente successo, ricordando che su 44 referendum presentati nella storia della nazione solo otto sono stati approvati.