Troppo difficile tagliare il cordone ombelicale con la Gran Bretagna, anche se in realtà, in termini pratici è già stato tagliato da tempo? Il professore della Monash University Justin Malbon ha suggerito una soluzione-compromesso che non richiede alcun cambiamento costituzionale, quindi niente plebiscito, niente referendum niente bisogno di aspettare, come ha suggerito il primo ministro Malcolm Turnbull, la morte della regina Elisabetta per rilanciare il dibattito, affondato da John Howard con grande maestria politica nel 1999.

Malbon, in un articolo pubblicato la scorsa settimana dai quotidiani del gruppo Fairfax, suggerisce la semplificazione ‘indolore’ dell’aggiunta al titolo di Governatore generale quello di presidente dell’Australia. Niente traumi, niente divisioni e ‘paure’, niente abbandono dei legami storici con la Corona, ma l’invenzione di una specie di doppio mandato che in realtà è un mandato solo e non abbisogna di alcuna elezione e di nessuna autorizzazione referendaria per cambiare la Costituzione.

Un semplice riconoscimento di quello che già c’è per ciò che riguarda un ruolo che dovrebbe rimanere esclusivamente cerimoniale. Un simbolismo aggiunto ad un simbolismo, facendo diventare il Governatore generale il vero capo di Stato australiano che attualmente non è, almeno quando si tratta di muoversi sui palcoscenici internazionali. L’Australia, infatti, come ben sappiamo, continua ad avere come capo di Stato un cittadino di un altro Paese, ma allo stesso tempo non permette ai suoi parlamentari di essere cittadini di quello stesso Paese: ce lo ha confermato, e continuerà a farlo in questo inizio anno ‘tormentando’ governo e cittadini, la Corte costituzionale, applicando delle regole che ribadiscono l’indipendenza dell’Australia nei confronti della Gran Bretagna ritenuta giustamente un Paese straniero.

“Il Governatore generale non è il capo di questa nazione in termini costituzionali - sostiene Malbon -, ma lo è in termini pratici e quindi potrebbe tranquillamente essere presentato a livello internazionale, nel suo ruolo di rappresentanza, come il presidente dell’Australia e non il rappresentante del capo di Stato di un’altra nazione”. L’attuale titolo sarebbe usato esclusivamente per espletare gli obblighi costituzionali ancora legati alla Corona, come quello di controfirmare le leggi, per cui comunque non aspetta di certo l’autorizzazione della regina.

In Australia in effetti già si vive il massimo del compromesso per ciò che concerne il governo e il Parlamento in generale e non c’è una clamorosa urgenza di cambiare qualcosa che in realtà funziona benissimo. E’ quindi politicamente comprensibile la ripartenza, senza spingere troppo sui tempi, del dibattito repubblicano da parte di Turnbull, consapevole del fatto che, probabilmente, c’è meno entusiasmo oggi per una simile svolta di quello che c’era quasi una ventina d’anni fa. La scarsa fiducia dei cittadini nella politica e nei politici di oggi potrebbe frenare qualsiasi voglia di cambiamento: la figura di un capo di Stato, al di sopra degli opportunismi di leader ben poco rispettati e partiti vari, probabilmente offre quelle garanzie di stabilità, correttezza e affidabilità che i cittadini sembrano cercare in questo momento non solo in Australia.

Niente fretta dunque, con la possibilità, gettata lì quasi per vedere ‘l’effetto che fa’ di un plebiscito sullo stile di quello appena tenutosi per arrivare all’autorizzazione popolare per procedere sui matrimoni gay. Un plebiscito senza scendere nei particolari su che tipo di repubblica da proporre in caso di una vittoria del ‘sì’ ad una svolta costituzionale da elaborare nei dettagli prima di arrivare al necessario referendum per confermare il tutto. Far passare i referendum in Australia è estremamente complicato data la necessità non solo di ottenere la maggioranza di consensi, ma anche la maggioranza di consensi nella maggioranza degli Stati. Per questo su 44 referendum proposti dalla nascita della Federazione (1901) solo 8 hanno ottenuto l’approvazione dei cittadini: nel 1906 sulla possibilità di avere elezioni concomitanti per Camera e Senato; nel 1910 per dare al governo federale il controllo dei debiti degli Stati; nel 1946 sulle modifiche dei finanziamenti di Canberra agli Stati e la creazione di un authority per il controllo dei prestiti stipulati dagli Stati per il proprio sviluppo; nel 1946 assegnando a Canberra la responsabilità dell’erogazione dei Servizi Sociali; nel 1967 sulla possibilità di promulgare leggi a favore degli aborigeni, finalmente ‘riconosciuti’ nel censimento sulla popolazione sia a livello nazionale che statale ed infine nel 1977 con il triplice referendum sulla sostituzione ‘automatica’ con un rappresentante dello stesso partito dei senatori forzati al ritiro prima del completamento del mandato, sul permettere ai cittadini dei Territori di partecipare ai referendum e sulle particolari disposizioni riguardanti i giudici della Corte Costituzionale a fine incarico.

Turnbull, con una certa coerenza e lungimiranza, dopo la delusione alla fine del secolo scorso per la bocciatura del referendum repubblicano, quindi opta per il plebiscito (ma solo dopo la fine del regno di Elisabetta II) per arrivare ad uno storico cambiamento costituzionale mentre il suo predecessore alla Lodge, Tony Abbott, a dimostrazione che in fatto di coerenza lascia parecchio a desiderare, spara a zero sull’idea del ricorso al ‘sondaggio’ in stile matrimoni gay. “I cittadini non lo vogliono, il cambiamento non è necessario, un plebiscito non è il meccanismo giusto per risolvere le differenze”. Capito? Lo era per risolvere l’impasse delle nozze tra persone dello stesso sesso, anche se gli è andata male, ma per la repubblica no. “Non è opportuno, costa troppo, divide” e... rischia di avere successo.  

Ci sta invece il capo dell’opposizione Bill Shorten che ha promesso addirittura di accelerare il processo inserendo un plebiscito sulla repubblica nel suo ‘pacchetto’ elettorale per una sfida che i sondaggi continuano a dare per scontata, anche se le elezioni potrebbero essere lontane anche 18 mesi e in un anno e mezzo possono succedere, nel bene e nel male, tantissime cose.

Un plebiscito quello che il leader laburista ha promesso nel suo primo mandato che non dovrebbe includere il ‘tipo’ di repubblica che si vorrebbe introdurre con il presidente eletto direttamente dai cittadini o dal Parlamento, con qualche meccanismo che garantisca il mantenimento di un ruolo strettamente cerimoniale e rappresentativo: un altro ‘sì’ o ‘no’ “senza aspettare la morte di nessuno” con un dibattito sereno e adulto che dovrebbe riguardare, secondo Shorten, esclusivamente il perché del cambiamento e cioè “il nostro concetto di Australia, la nostra storia e, soprattutto, il nostro futuro”. Tatticamente forse ha ragione Turnbull, in fatto di maturità ormai raggiunta come nazione, da mettere alla prova in qualsiasi momento, ha sicuramente ragione Shorten.