Adesso si può davvero andare a votare: i liberali hanno concluso le formalità della ‘presentazione ufficiale’ della loro campagna elettorale, in corso ormai da quattro settimane, e i laburisti hanno fatto una cosa abbastanza insolita, preceduta da una che ormai tutti aspettavano con ansia perché, da più di trent’anni, fa parte di ogni corsa al voto che si rispetti.

La cosa ‘insolita’ è stata quella di mettere sul tavolo i conti delle promesse, con una settimana di anticipo rispetto al rituale ricorso alla ‘zona Cesarini”, tra le 24 e le 48 ore dall’apertura dei seggi. La cosa ‘solita’, che ancora mancava per poter andare serenamente a votare, invece, era l’annuncio di qualche tipo di investimento per il ‘ponte sullo Stretto’ australiano: il maxiprogetto infrastrutturale promesso da sempre che non si realizza mai. In questo caso si tratta del treno ad alta velocità Melbourne-Sydney che ora, dato che i tempi sono abbastanza maturi per coinvolgere anche gli elettori del Queensland, diventa sulla carta il direttissimo Melbourne-Brisbane, via Canberra e Sydney.

Il ministro ombra delle Infrastrutture, Anthony Albanese, ha fatto sapere che un governo laburista investirà un miliardo di dollari nell’acquisizione di terreni, prima che diventino preda dei costruttori, da riservare per il fantomatico corridoio ferroviario del futuro ‘bullet train’ australiano.

Insomma, finalmente ci siamo.

I liberali ieri, in occasione della presentazione del loro programma, hanno aggiunto due ‘zuccherini’ elettorali nel tentativo di richiamare l’attenzione dei giovani che si affacciano sul mercato immobiliare e dei residenti nei collegi da difendere con ogni mezzo di Deakin, Chisolm e Kooyong. Per i primi ecco il piano per agevolare l’acquisto della prima casa partendo da un deposito di solo il cinque per cento. Le banche generalmente chiedono almeno il 20 per cento prima di prendere in considerazione un mutuo, ma il primo ministro Scott Morrison ha annunciato che il governo ‘garantirà’ la differenza a sostegno del mercato immobiliare in generale e di persone singole con entrate fino a 125mila dollari e famiglie con un reddito complessivo fino a 200mila dollari l’anno. Praticamente neanche il tempo di concludere la presentazione che il ministro ombra del Tesoro Chris Bowen, ha detto: “Anche noi”. A cinque giorni dalle urne non si corrono inutili rischi di rimanere indietro.

Per gli elettori di seggi liberali altamente a rischio in alcune aree di Melbourne, ecco quattro miliardi per rilanciare il famoso raccordo autostradale East-West Link, un progetto che è stato chiaramente bocciato alle urne (statali) nel 2014 e nuovamente respinto dagli elettori del Victoria nel 2018 dopo il tentativo di racimolare qualche voto, che evidentemente non c’è, di Matthew Guy. Molto più appetibili, anche se chiaramente elettorali anche questi, i quindici miliardi, in quindici anni, promessi da Bill Shorten a sostegno del maxipiano di sviluppo della rete ferroviaria dello Stato (costo complessivo 50 miliardi), annunciato dal premier Daniel Andrews lo scorso novembre. L’offerta dell’opposizione federale comprende i cinque miliardi per il collegamento ferroviario tra il centro città e l’aeroporto, già promessi da Morrison.

Mosse e contromosse insomma mentre si entra nell’ultima decisiva settimana di una sfida che, indubbiamente, sembrava molto più scontata prima dell’inizio della campagna. Il primo ministro, nonostante la pesante eredità di un partito martoriato da divisioni interne, senza una solida e credibile squadra alle spalle e con la situazione insolita per un governo di partire con seggi da conquistare invece di permettersi il lusso di perderne qualcuno, è riuscito a recuperare abbastanza terreno da fare addirittura qualche serio pensierino ad una striminzita riconferma, con i voti preferenziali che in molti seggi potrebbero decidere l’esito delle elezioni.

Situazione incerta in tutti gli Stati, con almeno una dozzina di collegi in cui i verdi, l’Australian United Party di Clive Palmer e One Nation potrebbero fare la differenza. Interessante anche la sempre più consistente realtà degli indipendenti che, nella maggioranza dei casi, pendono sicuramente più a ‘sinistra’ che a ‘destra’ (definizioni a manica estremamente larga, giusto per intenderci): non più due o tre, ma una vera e propria squadra di candidati senza un partito alle spalle. Riconferma praticamente assicurata per Andrew Wilkie in Tasmania (seggio di Denison), meno certa quella di Kerryn Phelps a Wentworth una volta affievolita la rabbia per il golpe nei confronti di Malcolm Turnbull. Più complicata invece la corsa di Helen Haines sulla scia di Cathy McGowan nel seggio di Indi, che potrebbe ritornare nelle mani della Coalizione. Buone le prospettive, secondo gli ultimi rilevamenti, per il ritorno in Parlamento di Rob Oakeshott a Cowper nel New South Wales e, sulle ali dei sentimenti anti maggiori partiti (e in modo particolare anti parlamentari coinvolti nell’operazione interna che ha portato alla defenestrazione di Turnbull), Julia Banks spera di farcela a Flinders, mentre sembra sempre più incerto il ritorno a Canberra di Tony Abbott che rischia forte di essere scalzato dall’indipendente Zali Steggal a Warringah. Riconferma quasi certa invece per Rebekha Sharkie (Central Alliance) a Mayo (SA), ponendo definitivamente fine alle ambizioni politiche della figlia dell’ex ministro degli Esteri Alexander Downer, Georgina [Downer].

Liberali quindi sotto assedio su più fronti, con il Victoria che potrebbe diventare lo Stato in cui si gioca veramente il loro futuro: sopravvivenza o schianto completo. Per questo la campagna è ‘partita’ ieri insolitamente da Melbourne, come promesso in stile sommesso rispetto a quella laburista di una settimana fa, senza i leader del passato (impossibile pensare di avere in prima fila, fianco a fianco, Turnbull e Abbott, quindi d’obbligo rinunciare anche a John Howard) e senza troppi fronzoli, se non una specie di mini documentario su vita e famiglia di Morrison, microfono e fiori alla madre, moglie (fiori anche per lei dato che i liberali hanno scelto proprio la Festa della mamma per il mini show) e figlie sul palco, inquadrature di ministri sorridenti per ricordare che, nonostante la campagna in solitaria, la squadra esiste. Per il resto un’altra dose di meriti e slogan, dal ritorno in attivo (che ancora non c’è) al numero record di nuovi posti di lavoro, dal ‘meno tasse per tutti’ ai confini sicuri, dall’economia da difendere alle promesse finanziarie che ‘i laburisti non sanno mai mantenere’.

Qualche dubbio sulla scelta, da un punto di vista strategico, di una presentazione ufficiale della campagna alle 11 di mattina della ‘giornata della mamma’, con le famiglie generalmente a tutt’altre cose affaccendate: non proprio un giorno ideale per cercare di sintonizzarsi con gli indecisi.

E’ iniziato comunque lo sprint finale (ieri anche Shorten ha fatto campagna a Melbourne) dopo tre dibattiti televisivi che non hanno di certo spostato molti voti e quattro settimane senza particolari acuti, ma neanche clamorosi errori su entrambi i fronti politici, durante le quali i due leader hanno tenuto la barra dritta senza lasciarsi distrarre più del necessario da una serie infinita di candidati ai confini della realtà, che si sono ritirati o ai quali è stato chiesto il ritiro da una corsa che non dovevano nemmeno cominciare (anche se i loro nomi ormai rimangono sulle schede di voto) per i loro assurdi, in certi casi violenti o volgari, commenti o comportamenti registrati sui social media. Razzismo, islamofobia, omofobia, sessismo in bella mostra, assieme ai criteri sicuramente da rivedere da parte di tutti i partiti sulla selezione dei loro candidati.

Morrison e Shorten fermi sulle loro posizioni, con i consueti milioni o miliardi elettorali seminati strada facendo. Meno slogan del solito forse, una buona dose di negativismo nonostante le promesse di messaggi in positivo e due basi di partenza, per entrambi i partiti, fuori discussione: laburisti che vincono a mani basse la sfida sul clima e liberali in netto vantaggio sul fronte della sicurezza. Per chi basa il suo voto su quei due temi non ci sono dubbi, per gli altri, ancora cinque giorni di promesse e ‘paure’ con la possibilità di qualche ultimissimo asso nella manica ancora da mettere sul tavolo.