Tema delicato, quello delle relazioni internazionali, anche per un Paese come l’Australia, la cui distanza geografica non la tiene invero distante dalla necessità di coltivare, con attenzione ed equilibrio, rapporti diplomatici e di cointeressenza con le principali potenze mondiali.

Mentre restano ancora aperti gli interrogativi sui risultati della calda accoglienza che Scott Morrison ha ricevuto alla Casa Bianca tre settimane fa e, soprattutto, dell’ottima intesa con il presidente degli Stati Uniti, sembrano alquanto certe le crepe che si sono aperte negli ultimi mesi nel complicato rapporto con la Cina.

Tra l’altro a giudicare dall’ultima uscita del ministro degli Affari interni Peter Dutton queste crepe sembrano destinate a diventare sempre più consistenti. Uno dei momenti più delicati nelle relazioni diplomatiche tra Canberra e Pechino vede rappresentare nelle parole di Dutton un altro tassello che sollecita riflessioni su un tema, come quello delle differenze sul sistema dei valori democratici che, unito a quello degli interessi economici, forse rappresenta il fronte più impegnativo sul quale deve confrontarsi la classe politica australiana.

Peter Dutton questa volta ha preso di mira direttamente il Partito comunista cinese, accusandolo di condotta “incompatibile” con i valori australiani e dichiarando che, nonostante  l’indiscutibile importanza delle relazioni economiche tra i due Paesi, il proprio governo continuerà a stigmatizzare e condannare gli attacchi informatici, il furto di proprietà intellettuale e le indebite influenze all’interno del sistema universitario australiano.

“Il nostro problema - ha specificato il ministro - non è con il popolo cinese, certamente non con l’incredibile comunità cinese che vive qui in Australia. Il mio problema è con il Partito comunista cinese e le sue politiche quando diventano incompatibili con i nostri valori”.

La netta presa di posizione di Peter Dutton, decisamente forte e circostanziata, ha visto l’immediata reazione dell’ambasciata cinese a Canberra, che ha risposto ai commenti del ministro degli Affari interni dichiarandoli “scioccanti e privi di fondamento”.

“Condanniamo fermamente i maliziosi insulti rivolti al Partito Comunista Cinese, che costituiscono una vera provocazione per il popolo cinese - si legge in una nota dell’ambasciata-. Questa ridicola retorica danneggia gravemente la fiducia reciproca tra Cina e Australia e tradisce gli interessi comuni dei due popoli”.

Nel tentativo di gettare acqua sul fuoco è intervenuto anche il primo ministro Scott Morrison che, a difesa di uno dei più importanti membri del suo esecutivo, ha cercato di ridimensionare la portata dell’intervento di Dutton: “Ciò di cui stava parlando Peter è che ci sono differenze tra l’Australia e la Repubblica popolare cinese, ovviamente ci sono”, ha detto Morrison nel corso del suo viaggio-lampo alle isole Fiji.

“Non credo che ci sia qualcosa di terribilmente sorprendente al riguardo, quindi metterei in guardia contro qualsiasi tipo di analisi eccessiva o reazione eccessiva a quei commenti, perché penso che riflettano semplicemente il fatto che siamo due paesi diversi”, ha precisato il primo ministro insistendo sul fatto che le relazioni tra i due Paesi continueranno a restare molto buone.

“Ci sono molti Paesi nella nostra area che hanno diversi sistemi di governo, la Cina continuerà ad avere il proprio e noi lo rispetteremo”, ha concluso Morrison.

A Pechino, come reso evidente dalla presa di posizione dell’ambasciata, non è però andata affatto giù la dura dichiarazione di Dutton: Geng Shuang, il portavoce del ministero degli Esteri cinese, in conferenza stampa ha ribadito che il governo cinese continuerà sempre a opporsi e a combattere contro ogni forma di cyber-attacchi ma, ha continuato Shuang “vorremmo che si smettesse di puntare il dito contro la Cina ogni volta che accadono incidenti del genere”.

“Spero - ha concluso Shuang - che l’Australia rifiuti questa mentalità da guerra fredda e possa lavorare per fare avanzare le relazioni bilaterali e migliorare la fiducia reciproca”.

Da Canberra però a dare una mano al ministro degli Affari interni, arriva un altro pezzo forte dell’esecutivo, Matt Canavan, ministro per le Risorse, che ha confermato che le parole di Dutton altro non fossero che la rappresentazione di un fatto oggettivo: “Ovviamente, il nostro sistema di governo...non è coerente con quelli del regime comunista e questo è un fatto consolidato da tempo”, ha detto ieri nel corso di un intervento a Sky News.

Resta da capire, e il tempo e le posizioni di entrambi i governi ne daranno contezza, se e in che modo il sistema di valori, le differenze di cui hanno parlato i membri dell’esecutivo Morrison, avranno un ruolo nelle relazioni diplomatiche e in quelle commerciali tra Canberra e Pechino.

Tutti i numeri, dall’export verso la Cina che nell’ultimo decennio è cresciuto di quasi 37 miliardi, ai più di un milione di turisti cinesi che l’anno scorso hanno visitato l’Australia, solo per citare qualche dato, confermano che l’equilibrio delle relazioni internazionali di cui sopra sia materia alquanto complessa. Le due economie sono, infatti, estremamente complementari e se è vero che in termini di mercato globale chiunque abbia un occhio verso l’estero potrebbe, potenzialmente, esportare ovunque, resta altrettanto ovvio che nessun Paese, al momento, può garantire i numeri e le dimensioni del mercato cinese.

Imparare come gestire tutto questo senza eccedere in dichiarazioni di dissenso forti, a cui la Cina sembra essere più intollerante che mai, ma anche senza cadere nel rischio opposto di una indulgente sudditanza, è la vera sfida per la classe politica del futuro, in Australia e in tutto il mondo.