Giornata di mobilitazione popolare quella di sabato a Melbourne, Sydney, Newcastle, Cairns, Hobart e Darwin a favore dei rifugiati, di quelli che non arriveranno mai in Australia né come profughi, né come turisti, né come uomini e donne d’affari. Anche se su questa ultima remota possibilità c’è da scommettere che, in qualche modo, si riuscirebbe a trovare qualche tipo di compromesso. Malcolm Turnbull e il ministro dell’Immigrazione Peter Dutton comunque hanno sollevato un polverone con la loro proposta di bando a vita, via legge ideata soprattutto per mettere in imbarazzo i laburisti.
In questi tempi di ‘magra’ di idee e progetti che rischiano l’arenamento nel Senato a causa della situazione creata dalle dimissioni di Bob Day e dalle farsesche vicissitudini del senatore di One Nation del Western Australia, Rod Culleton, che hanno messo il governo in condizioni-limite per ciò che riguarda la possibilità di far passare qualsiasi provvedimento legislativo, vanno bene anche questi ddl di seconda categoria, come importanza per il Paese, per dare l’impressione di stare facendo qualcosa. In mischia quindi anche il plebiscito sui matrimoni gay, ma non il ritorno della Commissione di controllo del settore delle costruzioni perché, al momento, ci sono virtualmente due voti in meno per la Coalizione nel Senato e il rischio di ‘affondamento’ del motivo delle elezioni anticipate è troppo reale per osare di giocarsi un’altra bella fetta di credibilità e autorità.
Avanti pianissimo quindi, questa settimana, alla ripresa dei lavori in aula per l’ultima sessione dell’anno con il governo che cercherà in tutti i modi di prendere tempo per ‘proteggere’ un primo ministro che sta, ogni giorno di più, dando l’impressione di non essere in controllo della situazione e in grado di dettare i tempi e i temi del dibattito politico.
Come il suo predecessore Tony Abbott, Malcolm Turnbull era stato efficacissimo e scaltro nelle manovre per arrivare dove voleva arrivare, ma una volta raggiunto l’obiettivo entrambi hanno mostrato un’incredibile incapacità di passare ad una nuova fase propositiva della loro strategia politica, con un programma da seguire ed un elettorato da ‘portarsi dietro’.
Turnbull aveva promesso, durante la scalata, una ‘nuova leadership, niente più slogan e un buon governo con le idee chiare sul da farsi. Ha fallito in ogni singolo dettaglio, perfino gli slogan sono tornati, anche se con meno ripetitività e insistenza: ‘crescita e lavori’, ‘agilità e innovazione’ sono presto diventati messaggi vuoti e materiale prezioso solo per ricordare, di tanto in tanto, la mancanza di concretezza del governo. Per la leadership fiasco completo, con le redini in mano alla destra del partito che si sta assicurando, specie dopo la quasi sconfitta di luglio, che il primo ministro che ha accettato a denti strettissimi, mantenga tutti gli impegni presi per poter avere una seconda chance alla guida della Coalizione dopo la bocciatura del 2009.
Governo costretto a giocare di rimessa dunque, che si vanta per il passaggio parlamentare di tagli di spesa per un totale di sei miliardi quando il deficit è di 80 e più e che cavalca l’onda del populismo annunciando l’assurdo giro di vite contro gli aspiranti profughi che languiscono, in alcuni casi da anni, nel limbo di Manus Island o Nauru: “mai in Australia”, con Rudd che si indigna, dimenticando completamente che è stato proprio lui a far partire l’idea per cercare di recuperare terreno, dopo aver smantellato anzitempo e senza alcuna concreta alternativa la ‘Pacific Solution’ di John Howard. Non certo un ‘modello’ privo di difetti dal punto di vista umanitario, ma anche non assurdamente punitivo come quello annunciato da Rudd, abbracciato con entusiasmo da Abbott e ulteriormente ‘incattivito’ da Turnbull e Dutton per esclusivi motivi politici. Shorten ieri, nel corso di un’intervista televisiva, ha detto di non avere ancora deciso al riguardo dell’approvazione in aula del provvedimento, ma ha lasciato intendere che, nonostante l’impegno bipartisan sul fronte della lotta al traffico di uomini, ci sono dei limiti su quello che è lecito fare.
Rudd, Gillard, di nuovo Rudd, Abbott, Turnbull: cinque primi ministri in meno di nove anni. Solo il primo era partito bene, propositivo e ‘avventuroso’ al punto giusto: aveva promesso e illuso. Era andato perfino a rispolverare, con un certo successo, il mitico ‘It’s time’ di Gough Whitlam per convincere l’Australia che era venuto il momento di scaricare Howard. Tutti gli altri hanno fallito quasi subito, per motivi diversi (compresso il Rudd riciclato), il test della leadership di governo.
Turnbull aveva illuso tutti su un possibile ritorno alla ‘normalità’, dopo anni di instabilità e una logorante stagione di ‘urla e insulti’. Più di qualche commentatore aveva immaginato un lungo e felice periodo di maturità e coerenza, di una politica senza eccessi con un leader senza catene ideologiche di alcun tipo. Purtroppo niente di più sbagliato. Il ‘mattatore’ di Q & A, che aveva ripetutamente dimostrato di sapere criticare Abbott o Gillard senza strafare, con una certa ‘eleganza’ dialettica, che dava l’impressione di saper dire bene quello che la maggioranza della gente pensava e pensa, senza slogan o iperbole, senza giudizi affrettati e superficiali, una volta raggiunto il traguardo che si era prefissato ha dato l’impressione di non avere mai seriamente pensato al ‘dopo’. Il nuovo ‘messia’ a cui era stato finalmente affidata la guida del Paese, accolto con una certa fiducia anche dal mondo laburista che l’aveva apprezzato enormemente al punto di quasi offrirgli la tessera del partito durante la campagna repubblicana, ha forse deluso più di tutti gli altri proprio per le aspettative che aveva creato. Ora annaspa alla grande: decisamente non mostra di avere il polso della situazione, al punto di offrire a Bill Shorten ampie opportunità di attacchi esagerati su competenza, convinzioni, direzione, addirittura ‘moralità’ dopo la decisione sui rifugiati. Attacchi che distolgono l’attenzione dai ‘problemi’ dello stesso leader dell’opposizione con il mondo sindacale che, via intercettazioni, considera il Partito laburista di ‘sua’ proprietà e i suoi leader ‘dipendenti’ che si possono manovrare e, all’occorrenza, scaricare se non si adeguano ad esigenze e direttive. Ci sarebbero spazi e motivi per ‘reagire’ ed invece tutto quello che Turnbull ha saputo dire alla vigilia della ripresa del duello parlamentare, è un timido e certamente non sorretto dai fatti: ”Sto governando, sono in controllo, sto ottenendo risultati”.