Venerdì scorso tra lacrime e ricorsi storici la Ford ha fatto uscire dalla sua linea di montaggio le ultime due vetture ‘made in Australia’ e 633 lavoratori degli stabilimenti di Broadmeadows e Geelong hanno perso il lavoro. Siamo arrivati al dunque di quanto annunciato dalla Casa americana tre anni fa, a prescindere dalla generosità dei governi australiani. La fine di un felice rapporto durato più di 90 anni con la scusa del dollaro ‘pesante’ , che un po’ tutti sapevano che non sarebbe durato in eterno e della nuova linea del governo determinato ad eliminare i trattamenti di favore alle aziende costruttrici di automobili.
Anche perché parecchi dei miliardi investiti dal governo per sviluppare progetti ‘in casa’, all’insegna di ricerca ed innovazione erano poi regolarmente finiti a Detroit (nei casi di Ford e GMH) e Tokyo, per ciò che riguarda la Toyota che concluderà la sua esperienza australiana il prossimo anno. Ovvio che la perdita è grossa, che migliaia di persone resteranno senza lavoro, anche se sia il governo federale che quelli statali coinvolti nello storico abbandono, si sono attivati grazie all’abbondante preavviso su quanto sarebbe successo e succederà, per cercare di minimizzare l’impatto di una decisione che era da tempo nell’aria. Inutile continuare a raccontare la favola della pozione magica di trasformare in oro il piombo di un’industria che semplicemente in Australia non aveva più un ‘mercato’ sostenibile. Gli interventi pubblici erano diventati un alibi. La decisione è ‘cominciata’ diversi anni fa, con la graduale riduzione dei dazi che avevano protetto il settore creando competitività vera a livello globale, mettendo a confronto diretto design, qualità, consumi e prezzi nel campo automobilistico.
Ovvio che ci sono grandissime ripercussioni negative per una perdita ‘storica’ di un’industria che per svariati decenni era stata un po’ il simbolo della produzione industriale del paese. Holden, Ford, Toyota, Mitsubishi e Nissan (le ultime due uscite di scena con largo anticipo sulle ‘rivali’, rispettivamente nel 2008 e 1992) ‘vittime’ di un’inevitabilità non totalmente determinata dalla fine dei sussidi federali, come si vorrebbe far credere, ma soprattutto da scelte dettate dalla realtà del mercato globalizzato che non fa sconti, un mercato che cambia e che dà ora la possibilità di spostare l’attenzione su altre aree del settore-auto, come ha fatto osservare il nuovo amministratore delegato (per l’Australia) della Ford, Mark Fields che, in un’intervista all’Abc, ha ‘chiuso’ col passato dei ‘se’ e dei ‘ma’ invitando un po’ tutti a guardare al futuro, sottolineando le opportunità di lavoro che si sono create per più di mille dipendenti della Casa americana che continueranno ad operare dai nuovi centri di ricerca e progettazione di Geelong e Broadmeadows.
E il prossimo anno ci sarà il bis per ciò che riguarda lacrime, rimpianti e ricordi, con l’addio della amata Holden, simbolo di un’Australia che non c’è più da tempo. Un addio in questo caso che interesserà in modo particolare il South Australia, già con l’acqua alla gola in fatto di opportunità di impiego. La GMH sulle orme dei ‘rivali’ di una vita, cesserà la produzione e si limiterà a vendita, servizi e ricerca qui in Australia con una perdita diretta ed indiretta di decine di migliaia posti di lavoro, lasciando un ‘buco’ nell’economia nazionale, secondo il ministro ombra dell’Industria Kim Carr, di circa 29 miliardi l’anno. Il senatore naturalmente fa parte dello zoccolo duro del partito, quello che assieme ai sindacati non nasconde le sue tentazioni protezionistiche che Bill Shorten abbraccia a corrente alternata, nei momenti in cui un po’ di populismo non guasta come per l’appunto la scorsa settimana quando ha puntato il dito contro la Coalizione per l’abbandono di Ford, GMH e Toyota, scordandosi che già Kevin Rudd aveva anticipato la possibilità di chiudere il rubinetto dei sussidi-auto che avevano superato, nell’arco di vent’ anni, la soglia dei trenta miliardi di dollari. La sola Toyota riceveva 50mila dollari di ‘aiuti’ per ogni lavoratore impiegato (2500 in totale) nello stabilimento di Altona. Anche se in fatto di ‘sponsorizzazioni’ da parte di Canberra anche le banche (a difesa della solidità finanziaria del Paese) e le miniere (sotto la voce ‘ricerca e sviluppo’) non scherzano.
Shorten comunque dà la sensazione di posizionarsi a seconda delle necessità (elettorali) mostrando di non essere in perfetta sintonia con il suo portavoce del Tesoro, Chris Bowen, che la scorsa settimana, facendo eco a quanto dichiarato da Scott Morrison, ha detto: “Non dobbiamo alzare il ponte levatoio. L’ultima cosa di cui l’economia australiana ha bisogno è quella di ricorrere al protezionismo, all’isolazionismo.” “E’ assolutamente cruciale dire no - ha continuato - a spinte populiste come quelle di One Nation”.
A 24 ore di distanza, mettendo in evidenza che all’interno dell’opposizione non c’è tutta quella serenità programmatica sbandierata nel corso della recente campagna elettorale, Shorten ha aggiustato il tiro, dichiarando che è inutile “fare, nel nome della sicurezza finanziaria, lodi sperticate ai benefici del commercio senza barriere e condannare qualsiasi ombra di protezionismo” perché “il libero mercato deve lavorare negli interessi di tutti non solo di pochi privilegiati”. Una precisazione per mettersi in linea con quanto pensano, secondo i sondaggi, gli elettori laburisti che si sono dichiarati convinti (in percentuale 47 a 28) che gli accordi di libero scambio con altri Paesi costano posti di lavoro, esattamente il contrario di quello che pensano gli elettori liberali e, stranamente, verdi.
Shorten si schiera dalla parte della maggioranza virtuale dei suoi sostenitori compiendo quello che l’ex premier britannico Tony Blair, in un’intervista al quotidiano The Australian, ha invitato a non fare. “Puntando semplicemente su chi già ci vota non si va da nessuna parte”, ha detto, riferendosi anche alla scelta del suo partito in Gran Bretagna di affidarsi a Jeremy Corbyn, “garantendo per anni ai conservatori la guida del Paese”.
Blair ha consigliato Shorten di inseguire il ‘centro’, come avevano fatto Bob Hawke e Paul Keating negli anni ‘80 e ’90, di guardare al futuro e non al passato, cercando di offrire soluzioni coraggiose che devono sembrare ‘pratiche’ agli elettori, facendo diventare l’Alp un partito di governo e non di protesta.
E, partendo dall’attuale base di voti primari (elezioni dello scorso luglio) di solo il 34,7 per cento, forse il leader laburista su quel ‘centro’ da corteggiare farebbe bene a farci un pensierino serio.