CANBERRA - Ci risiamo: prepariamoci ad un altro 2010 anche se le circostanza sono diverse e questa volta il governo non è di minoranza. Ma la vittoria di Malcolm Turnbull è stata davvero ‘minima’ e Bill Shorten che, come Tony Abbott contro Julia Gillard, ha sfiorato l’impresa, in qualche modo si sente legittimato a rendere la vita del nuovo governo più complicata possibile. Almeno così sembra dalle prime avvisaglie.

Una decina di giorni fa il primo ministro, nel suo intervento al Circolo della stampa, aveva chiesto la collaborazione del capo dell’opposizione, nell’interesse della nazione, per affrontare da subito il problema del deficit e del debito. Ci ha riprovato sabato in un altro intervento pubblico a Brisbane e di nuovo ieri, in un’intervista nel corso del programma ‘Insider’ sulla rete nazionale Abc.

Shorten non ha fatto attendere molto il suo ‘probabilmente no’ mettendo sul tavolo le sue misure anti-deficit poi, spostando il tiro sul plebiscito sui matrimoni gay, ha fatto capire che con ogni probabilità si schiererà con i verdi per cercare di bloccare il progetto del governo di una consultazione popolare in merito.

Le sensazioni di un nuova ‘campagna contro’, a prescindere da quello che verrà proposto, si sono avute anche con gli attacchi preventivi a Turnbull sulla ripresa dei lavori parlamentari, quasi due mesi dopo le elezioni. Una critica completamente gratuita in quanto, con il doppio scioglimento delle Camere, si doveva per forza aspettare i risultati completi del Senato prima di poter ripartire con le consuete settimane di preparazione della nuova legislatura. Ecco perché c’è stata una pausa più lunga del solito e la nuova stagione parlamentare inizierà solamente questa settimana. Ma Shorten si è guardato bene da spiegarlo ed è partito invece con le accuse di ‘semiparalisi politica’, di ‘pigrizia’, di disinteresse per i cittadini ecc.. Un piccolo esempio di quello che ci si può aspettare con un governo indubbiamente debole in fatto di numeri sia alla Camera che al Senato, dove l’opposizione cercherà, quanto più possibile, di giocare la carta del ‘caos’, di un esecutivo in crisi permanente, con divisioni interne (già abbastanza evidenti), costretto a procedere ricorrendo a continui negoziati e compromessi.

Laburisti insomma determinati a far pesare la vittoria minima di Turnbull e sfruttare in particolare la necessità dei liberal-nazionali di assicurarsi almeno nove voti extra nella Camera di revisione per poter passare qualsiasi legge. I verdi, invece, saranno meno propensi a boicottare per partito preso l’operato della Coalizione, ma si ritroveranno con ben pochi punti in comune con la nuova amministrazione.

One Nation ideologicamente è sicuramente più vicina alla linea dei conservatori più conservatori, ma scoprirà di avere parecchie differenze con i moderati del partito di Turnbull, con la complicazione in più per la squadra di governo che l’addetto ad eventuali negoziati della formazione guidata da Pauline Hanson è un certo James Ashby, quello dello scandato Slipper, messo alla berlina da Christopher Pyne e abbandonato dal Partito liberale nel momento del bisogno, dopo aver dato una grossa mano ad Abbott & Co. 

Nick Xenophon è probabilmente il più ‘vicino’ a Turnbull (escluso il plebiscito), ammesso che ci sia qualcosa di sostanzioso di tanto in tanto per il ‘suo’ South Australia. Derryn Hinch è forse l’unico senatore senza particolari ‘simpatie’ con i partiti tradizionali, senza debiti di riconoscenza, senza qualche sassolino nelle scarpe da togliersi, come hanno invece sicuramente gli altri tre senatori ‘indipendenti’, quelli che la nuova formula per le elezioni della Camera alta si prefiggeva di eliminare: David Layonhjelm, Bob Day e Jacqui Lambie. Operazione fallita e dente avvelenato, anche se ideologicamente tendono sicuramente più a destra che a sinistra.

Non proprio il ‘caos’ quindi, ma sicuramente non poche difficoltà per il governo con facili previsioni di tre anni piuttosto tumultuosi. E partenza in salita con il disegno di legge, motivo delle elezioni del 2 luglio, sul ripristino della Commissione di controllo del settore edile, più i cambiamenti amministrativi dei sindacati, chiamati ad agire con le stesse norme di trasparenza di qualsiasi azienda. Rischio di dover ricorrere al voto delle Camere riunite se il Senato farà da subito le bizze, con eventuale verdetto sul filo del rasoio dati i numeri risicati di vantaggio alla Camera.

Subito in discussione anche il plebiscito per le nozze gay: per ufficializzare la proposta di indirlo ci vuole il via libera parlamentare e il ‘no’ certo di Di Natale e quasi certo di Shorten regalerà subito grandi responsabilità al gruppone ‘misto’ dei partiti minori e indipendenti con buone possibilità, in caso di bocciatura del voto popolare, che di matrimoni tra persone dello stesso sesso non si parli più fino alla campagna del 2019. Subito in aula anche il progetto-tagli: 6,5 miliardi di provvedimenti vari, impacchettati in un unico disegno di legge all’insegna del prendere o lasciare, con Turnbull, Morrison (ministro del Tesoro)e Cormann (Finanze) che non perdono occasione di ricordarci che Shorten, durante la campagna elettorale, aveva già detto sì ed ora si è messo a fare opportunistica ‘melina’. Pretattiche? Indubbiamente sì, su entrambi i fronti politici. Come il grido di allarme, in stile Hockey, lanciato dal ministro del Tesoro su un debito che, se non affrontato in fretta, rischia di raggiungere la soglia di ‘non ritorno’ e l’infelice ricorso agli attacchi superficiali e populisti della “dipendenza dal welfare”.

Turnbull ieri, come aveva già fatto il giorno prima a Brisbane, ha invitato un po’ tutti i colleghi parlamentari ad accettare la volontà popolare, il messaggio abbastanza chiaro, a suo dire, espresso alle urne, la richiesta cioè di un salto di qualità della politica e dei politici, di un maggior senso di responsabilità nei confronti dei cittadini e della nazione. Ha anche respinto apertamente i consigli di Abbott che, venerdì scorso, aveva invitato il governo a rifiutare qualsiasi compromesso, mostrando decisionismo e autorità. Evidentemente non è cambiato e non ha capito ancora perché ora si ritrova a fare questi commenti fuori dalla stanza dei bottoni, da leader di uno zoccolo duro del partito che, alla fine, potrebbe danneggiare l’operato di Turnbull e del governo più che i ‘no’ di Shorten.