Trent Zimmerman, Tim Wilson, Trevor Evans e Warren Entsch alla fine probabilmente accetteranno il compromesso di aspettare altri due anni, Dean Smith invece sta lasciando tutti col fiato sospeso. Ieri in un’intervista tv, il senatore del Western Australia ha assicurato che oggi pomeriggio, nella riunione straordinaria convocata dal primo ministro Malcolm Turnbull per risolvere l’impasse sui matrimoni gay, si batterà ‘vigorosamente’ per il voto di coscienza sostenuto dal suo disegno di legge in materia che, per la prima volta - ha spiegato -, offre totali garanzie per il rispetto di qualsiasi obiezione di carattere religioso alla celebrazione delle nozze tra persone dello stesso sesso. Un’importante novità rispetto ai progetti di legge sullo stesso tema precedentemente presentati, che si sono puntualmente arenati in aula.
Un tema che, a detta di Smith, non deve assolutamente essere considerato una specie di test sulla leadership di Turnbull. Il problema, per i liberali, è che invece rischia di esserlo. Il primo ministro non può infatti permettersi il lusso di ‘lasciar fare’, deve mostrare autorità e stabilire con chiarezza la linea da seguire.
Abbastanza fantasiosa sembra la terza via del voto postale non obbligatorio, politicamente devastante sarebbe invece la forzatura del voto in aula dopo gli impegni presi con gli australiani nella campagna improntata sul plebiscito dello scorso anno, ma soprattutto per gli impegni presi all’interno della Coalizione. Soluzione, a prima vista più logica e fattibile, per evitare il precipizio, quella dell’aggiustamento di tiro con un tattico allineamento con i tempi fissati dai laburisti per l’inevitabile traguardo del via libera ai matrimoni tra persone dello stesso sesso all’inizio della prossima legislatura, via voto in aula.
Insomma l’impegno del plebiscito rimarrebbe inalterato fino alla scadenza del mandato: Turnbull così mantiene la promessa fatta ad elettori, nazionali e destra del partito, ma alle prossime elezioni l’approccio del governo cambia e si passa al voto di coscienza strappando una preziosa arma elettorale dalle mani di Bill Shorten. I “ribelli” possono aspettare ancora un po’ per evitare la catastrofe della guerra aperta in famiglia e il possibilissimo disintegrarsi del governo: il compromesso avrebbe come unica conseguenza ‘negativa’ la certezza che la comunità Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali) dovrà attendere fino al 2019 per ottenere quello che, se gli interessi politici di parte non avessero preso il sopravvento, avrebbe potuto già avere.
L’idea del plebiscito è stata infatti una scaltra manovra di Tony Abbott per tenere il partito unito in vista delle elezioni del 2016 su un tema che in casa liberal-nazionale rimane moralmente complicato, offrendo la remota opzione di un non procedere con responsabilità affidata agli elettori e assicurarsi allo stesso tempo una ‘pace interiore’ qualora il verdetto popolare avesse imposto un successivo voto in aula.
Una scelta che era piaciuta ai conservatori, che avevano guadagnato qualche altro anno di ‘status quo’, e che Turnbull, da sempre favorevole ai matrimoni gay e convinto assertore della strada più semplice ed ovvia del voto parlamentare, era stato costretto ad accettare per poter assumere la guida del partito. Plebiscito che è stato politicamente usato anche da Bill Shorten, per i propri interessi politici, mettendo in secondo piano quelli dei diretti interessati. Ecco allora la campagna-contro, infischiandosene di precedenti considerazioni favorevoli in merito, sventolando la bandiera del ‘rischio’ di un dibattito tutto meno che maturo e civile con possibili offese, intimidazioni, ‘violenze verbali’ nei confronti della comunità Lgbt. Una buona scusa per dire no, assieme a verdi e indipendenti, al voto popolare e gran lavoro dietro le quinte per mantenere sotto scacco il governo e, in modo particolare, Turnbull. Operazione indubbiamente riuscita che ha portato alla resa dei conti di quest’oggi in casa liberale.
Elettrizzato dalla ‘vittoria’ sul plebiscito che non s’ha da fare, Shorten ha invece proposto un altro plebiscito, in caso di successo laburista alle prossime elezioni, sulla repubblica. Galvanizzato dai sondaggi che continuano ad indicare che fra un paio d’anni sarà lui ad avere le chiavi della Lodge, il leader dell’opposizione si sente in diritto e dovere di mostrare coraggio e ‘visione’. Due settimane fa ha anticipato la possibilità di un referendum costituzionale per portare a quattro anni il mandato federale con data prefissata delle elezioni (Turnbull ha detto no, affondando sul nascere l’iniziativa), la scorsa settimana ha messo sul tavolo l’idea del voto popolare sul futuro repubblicano del paese cercando, ancora una volta, soprattutto di mettere in difficoltà il primo ministro che, dopo aver guidato senza fortuna la campagna del 1999, ha più volte lasciato intendere che fino a quando ci sarà Elisabetta II sul trono britannico, di repubblica, se veramente la si vuole, non è il caso di parlare. Il ‘momento’ favorevole è passato, bisogna ricostruire il progetto partendo da una vera e propria campagna di sensibilizzazione: il desiderio di cambiamento costituzionale, di una completa indipendenza, di un proprio capo di Stato deve crescere spontaneo. Il plebiscito in questo momento non avrebbe alcuna possibilità di successo e non farebbe altro che danneggiare il percorso verso la repubblica.
Ma Shorten non ci sta. Euforico e baldanzoso non si lascia sfuggire un’occasione per mostrare i suoi muscoli politici. Eccolo allora, sabato scorso, rispondere d’impeto positivamente alla richiesta del Consiglio aborigeno per il Referendum costituzionale di portare avanti i cambiamenti proposti lo scorso giugno nell’incontro di Uluru per il riconoscimento costituzionale della collettività indigena. Nessun dubbio: una domanda referendaria pronta entro la fine dell’anno accettando tutte le richieste del ‘Referendum Council’. Decisamente più timido e ponderato l’approccio di Turnbull che ha parlato di un necessario dibattito in merito alle richieste, di un’attenta considerazione, di un indispensabile appoggio bipartisan prima di arrivare ad una proposta referendaria che abbia buone possibilità di successo. Un traguardo da raggiungere tutti insieme, senza una fretta ‘politica’ che porterebbe solo ad una quasi certa bocciatura popolare.
Più di qualche leader indigeno ha interpretato l’intervento del primo ministro, in occasione del ‘Garma Festival’ che celebra annualmente nel Northern Territory la cultura aborigena, la classica risposta in politichese per ‘non fare nulla in proposito’, applaudendo invece la determinazione mostrata da Shorten che ha assicurato che i laburisti appoggiano l’idea di dare una voce alla comunità aborigena, procedendo con i cambiamenti costituzionali. “Qui non si tratta di rispondere se dobbiamo fare queste cose, ma quando e come” ha detto. Magari in un’altra occasione ci spiegherà proprio quel ‘quando e, soprattutto, il come’ che sono le vere risposte da dare.