Ci siamo o quasi: fra poco più di una settimana finalmente si arriverà ai 30 sondaggi negativi consecutivi per Malcolm Turnbull. Finalmente perché così il primo ministro potrà voltare pagina e potrà cominciare a preparare il futuro. Non possono pensare altro in casa liberale aspettando la bufera di critiche che inevitabilmente arriverà con il ‘record’ eguagliato.

Il leader della Coalizione ha avuto tempi ampissimi per preparare la risposta alla ‘croce’ che si è messo sulle spalle quando ha deciso di lanciare la sfida a Tony Abbott, il 14 settembre del 2015. Quando ha parlato di una ‘traiettoria’ (dei sondaggi) che non ammette dubbi sul da farsi, di segnali ripetuti nel tempo (trenta volte consecutive) di una mancanza di fiducia degli australiani nei confronti dell’allora capo di governo. E ha quindi insistito sulla necessità di cambiare leader per cercare di riprendere in mano il filo del discorso politico.

Nel luglio del 2016 c’è stato il voto che avrebbe dovuto legittimare a tutti i livelli il cambio al vertice, ma la vittoria è stata molto più striminzita e sofferta del previsto. Ma c’è comunque stata e Turnbull avrebbe potuto chiudere lì il discorso dei sondaggi: avrebbe potuto ricominciare da zero, riportarsi in squadra Abbott per ricucire strappi e ferite sia con il diretto interessato che con quella parte del partito che si augurava un cambiamento di passo, un riconoscimento degli errori commessi e una ripartenza, ponendo fine a divisioni e recriminazioni. Ed invece Turnbull ha cercato ‘colpevoli’ per la vittoria risicata e ha continuato imperterrito sulla strada dei rischi minimi, delle decisioni in punta dei piedi, lasciando a Shorten ampi spazi da riempire in fatto di programmi, di alternative ad un governo disposto a vivacchiare, ad accettare le complicazioni di un Senato ostile senza mai alzare la voce. Disposto perfino a permettere agli avversari di preparare, senza troppe critiche o domande, un’alternativa di governo in stile anni ’50, improntata sul ritorno in auge dei sindacati, una presunta redistribuzione della ricchezza e una non tanto velata predisposizione alla chiusura e al protezionismo.

Ci sono voluti diversi giorni prima che Turnbull e il ministro del Tesoro Scott Morrison facessero sentire la loro voce sulla riforma, annunciata da Shorten, sulla cancellazione di alcuni vantaggi fiscali sugli investimenti azionari dei pensionati. Un progetto mirato a colpire solo la fascia più agiata della popolazione, che in verità aveva una rete di raccolta molto più ampia di quanto ideologicamente progettato, con tanto di necessità di un ritocco in corsa apportato da Chris Bowen, più sotto la pressione delle associazioni di pensionati che della Coalizione.

Risposta piuttosto blanda, nonostante l’importanza del progetto (almeno in una prospettiva liberale), anche sulla bocciatura della riduzione delle imposte alle aziende con un giro d’affari superiore ai 50 milioni di dollari l’anno. I laburisti hanno momentaneamente vinto la loro battaglia per status quo in materia, con lo slogan efficacissimo (e ripetuto ai livelli di ‘stop the boat’) del ‘regalo’ miliardario alle banche e multinazionali. Turnbull ha ‘minacciato’ di far diventare l’iniziativa un referendum elettorale, Shorten ha alzato la posta ‘minacciando’ a sua volta addirittura di abrogare il provvedimento se dovesse ottenere il via libera in aula il prossimo maggio. Sapendo benissimo quanto complicate e pericolose sono le marce indietro di questo tipo per gli equilibri economici del Paese.

Ma agli elettori si possono dire e promettere tantissime cose quando mostrano la disponibilità ad ascoltare. Cosa che sembrano fare sempre meno quando a parlare sono i liberal-nazionali.

Per questo il tempo comincia davvero a stringere per la Coalizione: i 30 sondaggi negativi devono segnare un punto di svolta, altrimenti rischiano di entrare nella spirale della sconfitta anticipata già sperimentata da Gillard e Rudd. Il primo ministro, dopo aver recitato per l’ennesima volta il ‘mea culpa’ sul numero di rilevamenti negativi scelto per il golpe, dovrà lanciare apertamente la sfida a Shorten puntando su un’economia che continua crescere, sui posti di lavoro che si continuano a creare, ma soprattutto su un chiaro e credibile piano energetico. Dovrà trovare il coraggio di parlare chiaro su quello che si può effettivamente fare perché certi ‘estremismi’, per quello che riguarda l’indubbia necessità di procedere nell’ovvio sviluppo delle energie rinnovabili, non sono economicamente sostenibili. Deve trovare il modo di ridurre le bollette dopo gli astronomici rincari degli ultimi anni, nonostante l’abbondanza in Australia di ogni tipo di risorse: dall’estremamente fuori moda carbone (anche se si fa l’occhiolino a nuove miniere per l’esportazione) al gas, dal sole al vento, fino all’uranio venduto sottovoce, tra gli altri, a Russia, Cina e India.

Fare un po’ di chiarezza in questo settore potrebbe sicuramente aiutare la credibilità e autorità del primo ministro e del suo governo, mettendo in luce il pericolo di un procedere verso un tentativo di de-carbonizzazione accelerata senza alcun reale beneficio planetario, ma estreme complicazioni interne.

Dopo il traguardo dei trenta sondaggi negativi di fila, Turnbull dovrà soprattutto dimostrare, prima alla sua squadra e poi al pubblico in generale, che non rimane alla guida del Paese per mancanza di alternative perché l’alternativa c’è e si chiama Bill Shorten.

Il budget del prossimo maggio diventerà quindi, per forza di cose, la piattaforma elettorale della Coalizione: sarà una specie di ultima spiaggia per Turnbull, l’ultima possibilità di indicare chiaramente la strada che intende seguire fino alle urne, con tutti i rischi del caso. Il primo ministro e Morrison dovranno giocare per primi la carta delle riduzioni fiscali sapendo di dover fare i conti con un inevitabile rilancio dei laburisti, che hanno a disposizione un autentico ‘tesoretto’ frutto del maxi-risparmio nel non procedere in fatto di riduzione delle imposte alle imprese e al giro di vite sugli investimenti pensionistici, oltre che la sovrattassa che intendono re-introdurre, questa volta non a termine, sui redditi superiori ai 250mila dollari l’anno.

Laburisti in vantaggio consolidato ormai da tempo, liberali alle corde. A questo punto ci vuole effettivamente un sacco di ottimismo per immaginare una risalita: da ieri poi c’è anche la tegola dei rincari delle assicurazioni sanitarie private, un ritocco di circa 200 dollari l’anno. Shorten ha fatto sapere che un suo governo metterà un tetto del due per cento sugli aumenti annuali per i primi due anni di mandato. Non si fa sfuggire un’occasione, né una promessa.