Le regole sono regole, e in Australia il concetto funziona. Se non proprio sempre, quasi sempre. E venerdì scorso c’è stata l’ennesima prova: niente compromessi, niente interpretazioni di comodo, niente semplificazioni per evitare figuracce a qualcuno o rischiare di mettere in crisi il governo. I giudici dell’Alta corte, chiamati a pronunciarsi sulle ‘regole’ per poter entrare in Parlamento, hanno detto che cinque dei sette imputati non le hanno rispettate e pertanto devono abbandonare le ambite poltrone di Camera e Senato. Due (i verdi Larissa Waters e Scott Ludlam) avevano già deciso di farlo subito dopo che era stata ‘scoperta’ la loro doppia cittadinanza, gli altri tre si erano invece aggrappati alla speranza di un improbabile compromesso.

Speravano, ma senza crederci più di tanto, che in qualche modo i giudici gli avrebbero graziati con qualche ‘interpretazione’ benevola delle regole. Niente da fare, e meno male per tutti: alla fine non si può che apprezzare il fatto che la magistratura possa operare con la massima indipendenza facendo rispettare in questo caso quello che c’è scritto nella sezione 44 (i) della Costituzione. Chi si candida per il parlamento federale deve essere esclusivamente un cittadino australiano, quindi informarsi bene della propria situazione prima di alzare la mano.

Il vice primo ministro Barnaby Joyce aveva immaginato che non l’avrebbe fatta franca e si era già preparato all’inevitabilità di un’altra campagna elettorale per riconquistare il seggio di ‘casa’. Nato e cresciuto nel collegio di New England, con ogni probabilità, il 2 dicembre (data decisa nella stessa giornata del verdetto, a dimostrazione di una ‘macchina’ politica perfettamente oleata), taglierà nuovamente per primo il traguardo elettorale e tornerà a Canberra nel vecchio triplice ruolo di leader dei Nazionali, di responsabile dell’Agricoltura e di vice Turnbull (come da ‘regole’, perché leader dei partner minori della Coalizione di governo).

Il primo ministro forse era l’unico, assieme a qualche diretto interessato (a parte Joyce) a credere nell’eccezione, in qualche tipo di ‘interpretazione favorevole’ della clausola 44(i): proprio lui, con il suo passato legale doc., aveva sbagliato da subito il tiro, anticipando al momento della ‘scoperta’ della doppia cittadinanza ereditata inconsapevolmente dal suo vice, un verdetto di ‘non colpevolezza’ al di sopra delle ‘regole’. Errore di valutazione che i laburisti non gli faranno (e non ci faranno) dimenticare tanto facilmente. Indubbiamente il primo ministro esce dalla vicenda piuttosto ammaccato non tanto perché per un mese abbondante si ritroverà, di fatto, alla guida di un governo di minoranza (anche se con solo quattro giorni di sedute parlamentari dove i numeri in qualche momento potrebbero davvero contare), ma perché fortemente indebolito dalle sue stesse decisioni. Credibilità, competenza, autorità, controllo dell’agenda politica: tutto andato all’aria. Un vivacchiare procedendo con mille cauzioni, in punta di piedi, su un campo minato, esattamente come era successo a Julia Gillard prima del ritorno ‘salva seggi’ di Kevin Rudd.

Turnbull sarebbe dovuto partire per Israele per le commemorazioni della Prima Guerra mondiale, ma ha dovuto rimandare la missione per cercare di calmare le acque all’interno della Coalizione e risolvere la grana della posizione di vice primo ministro che sarà affidata, fino al probabile ritorno di Joyce, al ministro degli Esteri Julie Bishop. Leader provvisorio dei nazionali (dato che anche Fiona Nash ha dovuto abbandonare in fretta e furia Canberra) Nigel Scullion.

L’ex partito agrario esce frastornato dagli eventi e rischia, tra l’altro, di ritrovarsi con un rappresentante in meno nel Senato dopo la brillante prova elettorale del 2016. Dopo aver ‘tenuto’ molto meglio dei liberali e di aver, di fatto, salvato la Coalizione, la senatrice Nash dovrebbe essere rimpiazzata (di nuovo le ‘regole’ da rispettare) dal secondo classificato sulle liste della Coalizione nel New South Wales, la liberale Holly Hughes. Altri negoziati in vista dunque per cercare di mantenere equilibri e pace nella famiglia allargata della partnership liberal-agraria in un sempre più probabile rimpasto prima della fine dell’anno. Insomma tutto meno che poter pensare serenamente a governare il paese. Il primo ministro non può far altro che ostentare fiducia, rassicurare e cercare di parlare di ‘cose concrete da fare”, ma l’aria che tira a Canberra sta diventando per i liberali sempre più irrespirabile.

A dare ossigeno al capo di governo dovrebbe comunque arrivare la, meno politicamente importante, decisione di far passare, una volta che saranno confermate le previsioni della vittoria dei sì al plebiscito/sondaggio sui matrimoni gay, la legge in materia. Prima però una tripla trasferta in Israele, nelle Filippine e Vietnam (per il vertice Apec) lasciando un po’ il fianco scoperto per possibili manovre destabilizzanti di una vice di cui, di questi tempi, sembra non fidarsi ciecamente in fatto di ‘lealtà’ nei suoi confronti.

Una complicazione in più dopo quella creata dalla triste decisione di promuovere il raid della polizia federale negli uffici di Sydney e Melbourne del sindacato Australian Workers Union (AWU) con documenti segretati riguardanti donazioni e fondi usati da Shorten quando era la guida dell’AWU in favore degli attivisti di Get Up, che susseguentemente hanno appoggiato l’ingresso in politica dell’attuale leader laburista. Per il momento solo sospetti e massimo imbarazzo su come è stata condotta l’operazione-scandalo (mal riuscita) con tanto di ‘soffiata’ ai media partita dall’ufficio del ministro del Lavoro Michaelia Cash. Coalizione nel caos quindi su più fronti: Joyce impegnato a salvare se stesso e il governo nella campagna per riconquistare New England, Cash che non può che augurarsi che la polizia trovi davvero qualcosa di scottante in quelle cartelle sequestrate negli uffici dell’AWU per non dover dare ulteriori spiegazioni su quell’infelice missione anti-Shorten, la Bishop che potrebbe prenderci gusto a ‘dirigere i lavori’ a Canberra e Turnbull costretto a vivere ogni singolo giorno in trincea facendo finta di trovarsi a proprio agio in un ruolo per il quale sembra essere sempre meno tagliato.