Sono vittorie che valgono qualcosa di più quelle insperate, che arrivano all’ultimo istante, quando tutto sembra ormai perduto. Anche in politica, come nello sport, sono quei successi in extremis che spesso segnano un punto di svolta o che perlomeno fanno bene al morale.
Venerdì sera Malcolm Turnbull e la sua squadra hanno vissuto uno di quei momenti grazie a Nick Xenophon, che ha permesso al primo ministro di chiudere l’ultima sessione parlamentare, prima di quella del budget di inizio maggio, con un largo sorriso. Il tutto al fotofinish, al termine di un’altra settimana tutta in salita per il capo di governo, in cui il leader dell’opposizione Bill Shorten è sembrato un avversario ‘imbattibile’. Sempre più convinto nei propri mezzi, capace di incamerare un successo dopo l’altro nell’arena parlamentare: affondamento del tentativo di ratificare il trattato di estradizione con la Cina, bocciatura dei cambiamenti alla sezione 18C della legge anti discriminazione razziale, vittoria sui ‘penalty rates’ per il lavoro domenicale, portandosi dietro buona parte del Senato non liberal-nazionale e fuoco continuo su quegli sgravi fiscali da non concedere alle aziende, se non limitati a quelle con un giro d’affari inferiore ai due milioni di dollari. “Il Paese non se lo può permettere”, era lo slogan, abbinato al populista ed efficace: “Tagli di paga ai più deboli, tagli fiscali ai più ricchi”.
Poi, all’ultimissima ora, con la bocciatura ormai sulla carta del progetto di cercare di avvicinare le imposizioni fiscali a carico delle imprese australiane a quelle applicate nella maggior parte del mondo occidentale, il ministro delle Finanze Mathias Cormann è riuscito a strappare un sì, accompagnato da qualche contropartita ‘in stile Harradine’ (il senatore indipendente della Tasmania, a più riprese ago della bilancia nel Senato nella sua trentennale carriera parlamentare), al leader del Nick Xenophon Team per ridurre le imposte alle imprese con un volume d’affari inferiore ai 50 milioni di dollari. Il livello di tassazione passerà dall’attuale 30 al 27,5 per cento nei prossimi quattro anni ed eventualmente al 25 per cento (i tagli entreranno in vigore già quest’anno per le aziende con un giro d’affari fino a 10 milioni di dollari, quelle nella fascia tra i 10 e i 25 milioni dovranno aspettare il prossimo anno e la terza fascia il 2018-19).
Niente seconda fase del progetto per ora, con il piano decennale per un abbassamento del carico fiscale (al 25 per cento) per tutte le aziende, indipendentemente dalle loro entrate, che comunque rimane sull’agenda del governo, ha assicurato Turnbull (e l’ha ribadito ieri il ministro del Tesoro Scott Morrison in un’intervista televisiva, ipotizzando una spinta in quella direzione anche prima delle prossime elezioni), ma per il momento va bene così. Perché, a detta del primo ministro e di un raggiante Morrison, il traguardo raggiunto avrà come conseguenza un’impennata degli investimenti e un aumento della produttività, con ricadute positive su stipendi e impiego. Una visione sicuramente ottimista del futuro, non supportata da alcun particolare dato se non la positiva reazione dei diretti interessati, i rappresentanti del mondo imprenditoriale che hanno accolto con estrema gratitudine un provvedimento che dovrebbe riguardare circa 800 mila piccole e medie imprese.
Shorten ci è rimasto male e il ministro ombra del Tesoro, Chris Bowen, ha fatto quello che doveva fare nel suo ruolo: ha parlato di accordi di bassa lega, di trattative da mercato, di costose concessioni e inutili compromessi. Xenophon, infatti, ha ottenuto in cambio del suo voto un pagamento ‘una tantum’ di 75 dollari ai pensionati ($125 per le coppie) per far fronte ai crescenti costi energetici. Un provvedimento che riguarderà circa 3,5 milioni di australiani, al costo di 260 milioni di dollari. Inoltre il governo si è impegnato ad investire 110 milioni (si tratterebbe di un prestito) per la costruzione di un nuovo impianto per l’energia solare nel South Australia e di avviare uno studio per la costruzione di un gasdotto dal Northern Territory al SA. Promesso anche un intervento federale sul fronte dell’export se i produttori di gas non garantiranno abbastanza riserve per il mercato australiano.
Gli sgravi fiscali per le imprese erano al centro dello striminzito programma elettorale del governo, ovvio quindi che il parziale via libera sia stato salutato con un certa soddisfazione dal primo ministro e dai suoi più stretti collaboratori, pronti ora a rivolgere tutte le loro attenzioni su un documento di gestione che non ammette errori: il primo dopo la conferma del mandato, quello che ha la possibilità di gettare le basi per indicare la strada, che può permettersi di essere severo al punto giusto perché ci sono altre due finanziarie prima di arrivare al test delle urne, con la terza immancabilmente generosa perché gli elettori se lo aspettano e la politica si adegua, da sempre, senza distinzioni di partito.
Morrison ieri ha indicato le priorità del prossimo budget, che non turberanno sicuramente il sonno di nessuno: incentivare la crescita, riduzione della spesa, protezione della qualità di vita, con occhio di riguardo per i costi dell’energia e il caro-casa (acquisto ed affitto). Per qualsiasi dettaglio, ovviamente, tutto rimandato al 9 maggio, anche se il ministro del Tesoro ha confermato l’obiettivo (ma nessuna promessa alla Wayne Swan) di un ritorno in attivo nel 2020-21.
I laburisti venerdì hanno perso una battaglia che pensavano di avere già vinto, ma sanno di avere in mano un sacco di munizioni: non si stancheranno di battere il chiodo dei ‘penalty rates’, facendoli diventare un secondo tarlo in stile Medicare. Continueranno infatti a parlare di chiara ideologia politica, di una specie di esperimento per ciò che riguarda condizioni e paghe: si inizia col lavoro domenicale e solo con alcune categorie e poi, piano piano, si amplia il campo d’azione. E non si tireranno di certo indietro su un altro fronte di scontro che i liberali hanno, con una inspiegabile testardaggine, giurato di mantenere aperto: quello di quella presunta difesa della “libertà di parola” con le ‘offese’ e gli ‘insulti’ da ‘liberalizzare’ perché i Brandis di questo mondo non si rassegnano e non accettano la vittoria del buon senso registrata la scorsa settimana in parlamento con la conferma dello status quo sulle regole per la ‘protezione’ dei cittadini per ciò che riguarda le loro origini o il colore della pelle. Non bastano agli irriducibili della Coalizione le modifiche, accettate un po’ da tutti, dell’approccio della Commissione per i diritti umani sui ricorsi per ‘offese, insulti ed intimidazioni’ a sfondo razziale, con un’accelerazione delle procedure (finalizzazione entro un anno) e l’autorità di bocciare in partenza i ‘non casi’. A Turnbull il compito di raffreddare gli animi dei suoi ‘estremisti’, come ha promesso di fare sabato scorso, intervenendo alla riunione del Consiglio liberale del Victoria. Il primo ministro ha, infatti, invitato il suo partito a respingere il populismo e l’autoritarismo invocato dalla ‘sinistra’ e dalla ‘destra’, ripartendo dal ‘centro’, che è quello che la maggior parte degli australiani vogliono. Un riferimento diretto a Shorten e uno indiretto a coloro che, all’interno del suo partito, lo hanno tenuto ormai da troppo tempo in ostaggio. La promessa di cominciare ad essere quello che un po’ tutti si aspettavano che sarebbe stato una volta scalzato Abbott. Una promessa frutto della constatazione che gli australiani sono stufi di grida e urla, che c’è una fascia di elettori sempre più ampia che con i suoi spostamenti decide l’esito delle elezioni e che cerca semplicemente un ritorno alla ‘normalità’: un po’ di visione, un po’ di competenza, un po’ di equità, un po’ di onestà.