Forse Malcolm Turnbull ci ha sempre creduto, ma adesso può crederci un po’ di più. E forse cominciano a crederci addirittura quelli che fino a qualche settimana fa gli hanno fatto la guerra, quelli della brigata degli irriducibili, capitanata da Tony Abbott. Ultimamente il suo ‘diritto’ di intervenire a piacere per giudicare, consigliare, ma soprattutto criticare a voce alta le decisioni del ‘golpista’ Turnbull, l’ex primo ministro non l’ha esercitato più di tanto.
Forse ha seguito il consiglio del suo ex boss, di quel John Howard che rimane una delle figure più rispettate all’interno del Partito liberale (quattro vittorie elettorali di fila e quasi 12 anni alla Lodge non sono cose da poco) che circa sei settimane fa ha detto ai parlamentari liberali di farla finita, ricordando loro che hanno una “responsabilità collettiva” di fare squadra. Messaggio recepito o forse solo una fortunata tregua, o semplicemente la sensazione che il vento politico potrebbe aver cambiato direzione.
Comunque sia, sembra che in casa liberale si sia entrati in una fase di positivo silenzio, che cominci a circolare una certa fiducia, con l’impressione generale che le cose vadano effettivamente un po’ meglio, che il bicchiere elettorale possa finalmente essere visto mezzo pieno: l’economia continua a crescere come l’occupazione, che la scorsa settimana ha superato l’asticella del milione di nuovi posti di lavoro che rientrava negli obiettivi della Coalizione guidata da Abbott.
Un traguardo raggiunto con più di sei mesi di anticipo su una tabella di marcia che era stata fissata subito dopo le vittoriose elezioni del 2013. Meglio del previsto anche le entrate tanto da poter off rire un budget elettorale senza ricorrere ad alcuna alchimia matematica. I soldi sono in cassa e, continuando così, non diventa impossibile che si raggiunga davvero quell’attivo di bilancio che manca dai tempi di Howard e Costello. Scott Morrison potrebbe farcela, come ha promesso, con un anno di anticipo anche se, e qui il bicchiere diventa mezzo vuoto, il timido surplus previsto non permetterà di ridurre più di tanto il debito che, prima di migliorare, crescerà ancora nei prossimi dodici mesi dopo aver già sfondando il tetto dei 550 miliardi.
Piccoli segnali positivi comunque su tutta la linea, che non devono però illudere più di tanto perché Turnbull ha già vissuto diverse brevi esperienze positive prima di ripiombare nel grigiore e nell’incertezza a causa di qualche puntuale scandalo o imprevisto. Sicuramente, per esempio, non off rono prospettive di grande tranquillità le battaglie in corso in alcuni collegi per scegliere il candidato per le prossime elezioni, specie perché in alcuni casi si sta evidenziando il problema che la Coalizione sembra avere con la sua rappresentanza femminile ridotta davvero al lumicino. Un problema irrisolvibile per il primo ministro data la particolare struttura del partito che lascia piena autonomia alle sezioni statali che di quote rosa non ne vogliono sentire parlare. Onore al merito si continua a dire, nessuna corsia preferenziale e pazienza se fra i liberali le donne oggi in Parlamento sono meno di quelle che c’erano più di vent’anni fa.
Un fastidio per Turnbull, ma un ritrovato ottimismo resta, e buona parte del merito va a Bill Shorten. Il capo dell’opposizione infatti si ritrova con qualche problemino extra da aff rontare: il principale è sicuramente quello delle suppletive, la cui data inspiegabilmente rimane ancora da defi nire. Il leader laburista ha voluto farle diventare un referendum sulle due proposte fi scali annunciate nella settimana dei budget (quello vero e quello virtuale che spetta al governo d’alternativa). Decisamente un errore tattico perché nei seggi di Mayo (South Australia), Longman (Queensland) e Braddon (Tasmania) non tira aria particolarmente salubre per i laburisti e il fatto che nessun governo dal 1920 sia mai riuscito a strappare un seggio all’opposizione in una prova suppletiva, in caso di vittoria liberale (che i sondaggi sembrano indicare in tutti tre i collegi in palio, anche se in quello del South Australia la sfi da è con l’ex NXT, Rebekha Sharkie) le critiche non mancheranno nei confronti di Shorten.
Ma sono i motivi che hanno forzato il ritorno anticipato alle urne in ben quattro seggi (in quello di Fremantle, i liberali hanno scelto di non gareggiare attirandosi una buona dose di critiche anche da parte dei propri sostenitori) che continuano a minare la credibilità di Shorten dopo le assicurazioni che il fattore doppia cittadinanza non riguardava minimamente il suo partito, dove tutto era in perfetto ordine grazie a controlli super garantiti di eleggibilità di ogni singolo candidato. Ed invece ci sono altri tre laburisti alle prese con possibili ricorsi all’Alta corte, dopo i quattro che hanno già dovuto gettare la spugna: Anne Aly (Cowan, WA), Emma McBride (Dobell, NSW) e Emma Husar (Kingswood, NSW).
Tira brutta aria anche con le richieste, che sembrano tanto ‘avvertimenti’, del controverso, per pratiche e attitudini, sindacato CFMEU (Construction, Forestry, Maritime, Mining and Energy Union) che ha apertamente chiesto ad un futuro governo Shorten di cambiare registro per ciò che riguarda le leggi che riguardano i sindacati stessi dopo il giro di vite di Turnbull ad inizio mandato: una richiesta del valore di circa 11 milioni di dollari che il sindacato in questione potrebbe investire nelle prossime elezioni. Shorten non ha detto no (nonostante i consigli dell’ex premier laburista del Queensland Peter Beattie) né alle possibili donazioni, né alle richieste che il leader del CFMEU John Setka ha motivato ricordando che “i laburisti guidati da Rudd e Gillard non hanno fatto assolutamente nulla per i lavoratori nei cinque anni che sono stati al governo”. Non ha ritenuto necessario precisare che per buona parte di quei cinque anni il ministro per le Relazioni industriali era Bill Shorten. Messaggio non tanto cifrato.
Altro problema per il leader dell’opposizione quello dei rifugiati: la sinistra del partito, infatti, scalpita sulla questione dei richiedenti asilo. Non piace l’accordo bipartisan sui disperati detenuti a Manus Island e Nauru e non piace la decisione del ‘mai in Australia’ di Rudd che la Coalizione ha applicato alla lettera. Diffi cile evitare lo scontro al Congresso nazionale di luglio se non si troverà un compromesso prima della maxi-assemblea durante la quale verrà anche dibattuta la questione palestinese. Anche su questo tema i laburisti sono più che mai divisi: la destra (la corrente di Shorten) è pro-Israele, la sinistra, che fa capo ad Albanese, insiste (e il ministro ombra delle Infrastrutture è stato abbastanza chiaro in proposito ieri in un’intervista sull’Abc) sulla linea dei due Stati. Negoziati in corso, ma grana sicuramente da risolvere per mantenere l’unità che ha fi nora distinto il partito sotto la direzione di Shorten.
Turnbull si augura di poter fare altrettanto dopo le numerose incrinature degli ultimi due anni: unità ritrovata (si augura) proprio nel momento cruciale del mandato, negli ultimi dodici mesi prima delle urne. I segnali sono positivi da una parte, mentre si registra qualche scricchiolio di troppo dall’altra. Un’inversione di tendenza? Ci sono precedenti che consigliano la massima prudenza nelle fi le della Coalizione.
Considerando che non ci sono più blocchi elettorali, che non ci sono più scelte di identità e appartenenza, che non ci sono più consensi certi (imprenditori da una parte, lavoratori dall’altra), ogni elezione è aperta ad ogni risultato puntando sulle idee, sulle proposte, su quello che viene off erto di volta in volta, sulla credibilità delle squadre, ma soprattutto dei loro leader. Sia Turnbull che Shorten hanno un bel po’ da lavorare in merito, anche se il primo, pur senza brillare e dopo aver più deluso che convinto, su questa ultima voce sembra avere ancora un discreto vantaggio.