Il risultato non è chiaro,  quello che invece non lascia più dubbi è il fatto che la scena politica in Australia è profondamente cambiata perché c’è un distacco sempre più evidente tra i maggiori partiti e i cittadini. C’è ormai molta meno fedeltà di parte, molta meno stima nei confronti dei protagonisti di sempre dovute ad una crescente delusione per ciò che riguarda le idee, le proposte, i progetti, le visioni e ad un assottigliarsi delle differenze che non fa altro che rafforzare quello che entrambi le maggiori forze politiche del paese vorrebbero contrastare: il dilagare degli “altri”. La fascia degli elettori fluttuanti si sta allargando di elezione in elezione e ha ormai superato la soglia del 40 per cento: una grossa fetta dell’elettorato australiano che sembra ormai sapere esattamente cosa non vuole e un po’ meno cosa vuole.

Sabato l’incubo dl 2010 è tornato realtà: alla fine probabilmente toccherà di nuovo a  Malcolm Turnbull, forse senza aiuti esterni, forse in forzata partnership (anche se si continua a negare la disponibilità a farlo) con Bob Katter (che sarebbe già al lavoro sulla lista dei desideri) e, a questo punto, con la rappresentante del Nick Xenophon Team, Rebekha Sharkie, che ha eliminato il suo ex boss, Jamie Briggs a Mayo (SA), dato che gli indipendenti di Indi e Dennison, Cathy McGowan e Andrew Wilkie avrebbero già fornito un preventivo “non trattiamo”.

Bill Shorten ci è andato vicino, al punto di continuare a non mollare e pensare, fino a quando non sarà tutto ufficializzato da preferenze, voti in assenza e postali, al miracolo. E sicuramente, nonostante la quasi certa “sconfitta”, è uscito meglio lui di Turnbull da questo incredibile duello all’ultimo voto in almeno una ventina di seggi, di cui tredici ancora in da assegnare.

Per il primo ministro una conferma, se ci sarà, di Pirro: da questa sfida esce, infatti, incredibilmente indebolito, assieme al partito e al Paese. Perché a prescindere dai 76 seggi necessari per governare che forse saranno agguantati per il rotto della cuffia, o si raggiungerà un’intesa compromesso per la sopravvivenza, siamo entrati in un nuovo clima di grande instabilità, tutto il contrario dello slogan coniato per cercare di evitare proprio quello che è successo: “stabilità o caos” e siamo decisamente più vicini alla seconda opzione. Maggioranza sul filo del rasoio alla Camera e Senato ancora più frazionato di prima, con Pauline Hanson, Derryn Hinch, Nick Xenophon con due o tre rinforzi del Team SA, Jacquie Lambie magari con un partner, i verdi, ma forse anche un rappresentante dei Christian Democrats del reverendo Fred Nile, alla faccia della modernità.

Il ‘non risultato’, un’altra ‘non vittoria’, dopo quella della Gillard del 2010, era stata ipotizzata da più di qualche osservatore, ma sicuramente non dalla maggioranza degli addetti ai lavori che, nonostante i sondaggi fossero abbastanza costanti sul 50 a 50 da parecchie settimane, con minime variazioni da una parte o dall’altra, ritenevano che lo spostamento di voti non fosse sufficientemente uniforme da creare una situazione di stallo, perché secondo presunto rilevamenti commissionati a porte chiuse dai liberali, la Coalizione avrebbe tenuto in alcuni seggi marginali. Era impensabile che si potesse ripetere lo tsunami anti-laburista del 2013, ma contenere le perdite sì. Invece siamo qui a commentare un fallimento che mette l’Australia in una situazione ancora più precaria di quella in cui si era trovata sei anni fa, perché il Paese non gode della stessa salute economica, perché il boom minerario è definitivamente storia del passato, perché i ridottissimi tassi d’interesse non lasciano troppi spazi di manovra, perché ci sono le fresche incognite della Brexit con cui dover fare i conti e le paure di ancora più gravi conseguenze internazionali se l’America deciderà di andare fino in fondo con la sua “pazza idea” per la Casa Bianca.

Governo con maggioranza ai minimi termini o addirittura di minoranza, Senato che non offre certo grandi garanzie di cooperazione ad occhi chiusi e di riforme (fisco, relazioni industriali, welfare) sarà difficile poter parlare. Turnbull ingabbiato dalla sua stessa scelta di ripartire da zero: ora, col senno del poi, è facile criticare e dire che non era il caso, che si poteva andare fino in fondo oppure che sarebbe stato il caso di indire le elezioni subito dopo aver preso il posto di Abbott quando la sua popolarità del primo ministro era alle stelle e Shorten era alle corde alle prese con la possibilità di una sfida interna.

La realtà è che ormai agli australiani i due maggiori partiti vanno stretti, che si stanno abituando all’idea della terza, quarta e quinta via, delle voci che si alzano fuori dal coro ‘Lib-Lab’, che la xenofobia di Pauline Hanson o l’omofobia dei candidati di Fred Nile, contro islam e gay, stanno trovando terreni ferili, che la globalizzazione ha fornito nuovi interessi per localismi e protezionismi come quelli invocati da Xenophon e Lambie, che ricette semplici e dirette, magari monotematiche, come quelle di Hinch possono attrarre simpatie immediate, che i verdi sono ormai sempre più considerati un’alternativa più a sinistra, più vicini a quella fascia dell’elettorato che guarda a più concrete priorità di quelle finanziarie ed economiche.

Per Turnbull e la sua squadra era ed è la ricetta per il caos (vedremo ora come faranno ad evitarlo dato che sono ben dentro a questo impasse), per qualcuno è invece questa non vittoria è la miglior ricetta per fare politica sana, parlando a tutti, spiegando, senza imporre, una contrattazione continua, aperta, un dialogo forzato per arrivare alla miglior soluzione possibile. Non è quello a cui gli asutraliani erano abituati, non è quello che li faceva guardare con un pizzico di suuperiorità all’instabilità e la scarsa affidabilità politica di altri paesi, come l’Italia, che additavano come esempio di quello che in politica non si dovrebbe fare o avere.

Ed invece ora siamo qua a vivere proprio tutto questo: elezioni senza chiari risultati, maggioranza sul filo del rasoio se va bene, con alleanze da negoziare se va male (per Turnbull). Un partito alle corde, l’altro che non ha vinto ma brinda e festeggia come se avesse vinto, i verdi soddisfatti, Xenophon raggiante, Katter che ha il suo piccolo incontrastato regno nel nord del Quensland, Wilkie che si è costruito il suo personalissimo seguito in Tasmania assieme alla Lambie, la Hanson che nessuno vuole ma che non è mai andata via. Turnbull umiliato che assicura che avrà i numeri per fare da solo, Shorten estasiato perché la Coalizione “non ha più un mandato” e “i laburisti sono tornati” dall’oblio dove lui stesso li aveva cacciati, parla di unità e dichiara il suo “amore” politico per la sua vice che non ricambia e preferisce gustarsi il “momento” piuttosto che giurare fedeltà al leader che ha vinto senza vincere.

Per il risultato finale, almeno per la Camera, di queste elezioni 2016 bisognerà aspettare probabilmente fino a domani, e forse anche qualche giorno di più. Per un quadro veramente completo, compreso il senato ed esauriti riconteggi e ricorsi, spiega la Commissione elettorale, ci vorrà circa un mese.