Dopo l’annuncio, che più elettorale non poteva essere, della riapertura del centro per richiedenti asilo di Christmas Island, Scott Morrison raddoppia: ha registrato infatti un messaggio-video, che sarà tradotto in 15 lingue e diffuso in una decina di Paesi, inclusi noti punti di partenza di ‘disperati’ come Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka, Afghanistan e Iraq. Il video servirà a informare i possibili acquirenti del biglietto per l’Australia, ma soprattutto i trafficanti di essere umani, che Canberra non cambia rotta, che le regole di ‘difesa dei confini’ rimangono inalterate, compresa quella dei ‘mai in Australia’ per chi arriva a cercare asilo via mare.

Bill Shorten gli ha dato l’opportunità di raccontare la sua ‘storia’ preferita e il primo ministro l’ha colta al volo. L’opposizione che, assieme agli indipendenti, ha preso il sopravvento in aula e ha imposto di cambiare una legge che il governo non voleva cambiare, in tempi ‘normali’ non sarebbe stata scaricata con un’alzata di spalle come se non fosse successo niente, ma avrebbe sicuramente ottenuto le elezioni anticipate. Ma la Coalizione non è pronta a un test già troppo vicino: vuole poter presentare il budget con il quale cercherà di guadagnare disperati consensi, offrendo sconti fiscali e concrete prove di capacità di gestione finanziaria superiore a quella dei laburisti (il ritorno in attivo di bilancio continua a essere considerato dai liberali un traguardo in grado di spostare migliaia di voti), anche se il piatto principale della campagna rimarrà quello della paura, delle garanzie che il governo offre nel campo della sicurezza contro i visibili tormenti e i contorcimenti dei laburisti, incapaci di tenere dritta la barra della elettoralmente necessaria severità.

Morrison ha alzato le spalle dopo l’umiliazione della storica sconfitta alla Camera e Shorten non ha insistito più di tanto sull’argomento perché l’ultima cosa che vuole è che la questione dei ‘boat people’ diventi davvero il tema principale della campagna. Quindi, anche da parte del leader dell’opposizione una buone dose di mezze verità che non rispecchiano la realtà delle cose: ecco allora l’assicurare che la decisione di permettere ai circa 1000 detenuti di Manus e Nauru di accedere a cure sanitarie in Australia è stata presa esclusivamente per ragioni umanitarie e che, comunque, non cambia nulla per ciò che riguarda la politica sulla sicurezza dei confini. Non è ovviamente vero e Shorten lo sa bene. Come il vice primo ministro Michael McCormack sa benissimo che il provvedimento votato la scorsa settimana non porterà in Australia, come ha sostenuto, assassini e pedofili, dato il potere di veto che rimane nelle mani ministeriali. Bugie, slogan, paure all’insegna di una strategia politica che ha imboccato la strada del cattivo esempio continuo, dello sfruttare, senza provare il minimo senso di colpa, tutto quello che conviene: altroché parlare bene e razzolare male, adesso si parla anche male e non ci si preoccupa molto.

Nel 2016 la falsa campagna dei laburisti sulla privatizzazione del Medicare, ben sapendo che non c’era la minima verità in quello che hanno sostenuto fino alle urne per impaurire la gente e ora la campagna delle esagerazioni sulla possibile ripresa degli arrivi di aspiranti profughi dopo un voto e una nuova legge che riguarda esclusivamente i circa mille prigionieri da sei anni a Nauru e Manus Island, con l’unica colpa di avere avuto la sfortuna di arrivare qualche giorno dopo l’annuncio di Kevin Rudd di ‘quel mai in Australia’ regalato al suo successore alla Lodge.

E siamo solo all’inizio perché nelle prossime settimane Morrison continuerà a battere il ferro della paura, a usare i rifugiati per scopi elettorali, e le smentite di Shorten su un abbassamento della guardia da parte di un’amministrazione laburista non serviranno a un granché. Se poi, per puro caso, dovesse davvero arrivare qualche barca di richiedenti asilo allora la musica cambierebbe interamente. Anche se il leader dell’opposizione assicura che gli elettori hanno superato le ansie del 2001, un nuovo Tampa (il mercantile norvegese che Howard aveva bloccato in acque internazionali con circa 433 aspiranti profughi a bordo) metterebbe a dura prova la sua teoria del salto di qualità degli australiani sul tema dell’immigrazione. Che questa settimana, nei rimanenti tre giorni di dibattito parlamentare, si arricchirà di un nuovo capitolo.

È passata infatti quasi inosservata un’altra scelta, destinata a far discutere, di questo governo che sembra essere il peggior nemico di se stesso, specializzato nel complicarsi la vita. Nel gran polverone sollevato dalla sconfitta in aula dell’esecutivo, si è persa di vista una decisione che nei prossimi giorni finirà davanti alla Commissione Finanze del Senato. Il governo ha infatti affidato la gestione dei servizi di sicurezza nel centro di detenzione di Manus Island a una piccola compagnia di Singapore che, secondo quanto riportato dal Financial Review, ha come indirizzo una capanna sulla spiaggia di Kangaroo Island, accompagnato da un numero di casella postale a Singapore. Il contratto per 22 mesi vale circa 500 milioni di dollari, molto di più di quanto sono costati i cinque anni di servizio svolto nello stesso centro della ditta internazionale Ernst & Young.

Ma c’è di più: il ministro dell’Interno, Peter Dutton, si è rifiutato di fornire altri dettagli in merito nascondendosi dietro la solita storia della ‘sicurezza nazionale’, ma sembrerebbe che la ditta in questione, la Paladin, abbia già ricevuto un anticipo di dieci milioni di dollari, in quanto non avrebbe abbastanza fondi per iniziare a proprie spese il servizio. Il Financial Review ha anche scritto che una persona con una considerevole conoscenza sul processo di assegnazione dell’appalto in questione avrebbe affermato che la scelta della Paladin sarebbe stata sollecitata dal governo di Papua. Dutton non ha smentito. La vicenda passa ora nelle mani del Senato. Solo tre giorni di lavori parlamentari ma lo spettacolo è garantito.