Il 1983 rimane impresso nella memoria collettiva come uno degli anni più luminosi e vitali per la musica dance. Chi, nei primi anni ‘80, aveva criticato o addirittura predicato contro questo fenomeno, dovette presto ricredersi: le classifiche di vendita di quell’anno furono una celebrazione globale del ritmo da discoteca, dell’energia dei sintetizzatori e di quella voglia di ballare che accomunava intere generazioni. Circa la metà delle posizioni era occupata da brani nati per la pista, provenienti da artisti di ogni parte del mondo. A dominare incontrastata Irene Cara, incoronata regina indiscussa grazie a Flashdance... What a Feeling, colonna sonora del celebre film che portava lo stesso nome. La sua voce potente e piena di passione riuscì a trasformare la danza in un simbolo di libertà e di riscatto personale. In tutte le discoteche, tra luci stroboscopiche e pavimenti illuminati, le ragazze si scatenavano rivivendo le emozioni del film, in un perfetto connubio tra cinema e musica dance.
Ma il 1983 fu anche l’anno della consacrazione della dance italiana, quella ‘made in Italy’ che seppe conquistare l’Europa e persino le classifiche oltreoceano. I Righeira, con la loro Vamos a la playa, firmarono la colonna sonora dell’estate: ironica, solare, leggera e con un ritornello destinato a diventare eterno. Accanto a loro, Gazebo incantava con I Like Chopin, una perla elegante e malinconica che univa le melodie classiche al pop sintetico più raffinato, portando la musica italiana a un livello di riconoscibilità internazionale. Sempre dall’Italia arrivarono i Cube con Two Heads Are Better Than One, un titolo che sembrava quasi una filosofia di vita e che rimbalzava tra radio e discoteche. Ryan Paris, con la sua Dolce Vita, portava nel mondo un’immagine romantica e sognante dell’Italia da ballare, mentre P. Lion con Happy Children univa l’innocenza del titolo a un ritmo irresistibile, una combinazione che lo rese uno dei brani più amati delle notti europee.
Nel frattempo, oltreoceano, Michael Jackson dominava ogni classifica possibile. Il suo album Thriller non fu solo il disco più venduto del 1983, ma divenne il più venduto di tutti i tempi, un punto di svolta nella storia della musica pop. Brani come Billie Jean e Beat It misero d’accordo pubblico e critica, fondendo pop, funk, rock e dance in un linguaggio universale. Ma per Jackson il 1983 fu davvero un anno d’oro anche per un’altra ragione: la collaborazione con Paul McCartney, ex Beatles, nella hit Say Say Say, un incontro tra due generazioni che sanciva definitivamente la sua grandezza.
Dall’Inghilterra arrivava un’altra icona destinata a cambiare l’immaginario musicale e visivo degli anni ‘80: Boy George, leader dei Culture Club. La sua immagine androgina e la sua voce vellutata portarono una ventata di novità e libertà. Con Do You Really Want to Hurt Me e Karma Chameleon si impose come simbolo di un’epoca che amava mescolare generi, identità e colori. Le sue canzoni, apparentemente leggere, contenevano una dolce malinconia che conquistava anche i più scettici.
L’elenco dei protagonisti del 1983 è sterminato, e ognuno di loro contribuì a definire quell’anno come un mosaico sonoro perfetto. I Twins con Face to Face, Heart to Heart e Not the Loving Kind offrirono melodie pulite e sofisticate, mentre Laid Back ci regalava Sunshine Reggae, brano dal ritmo rilassato e contagioso che portava un tocco caraibico nelle fredde notti europee. I Bandolero con Paris Latino univano pop e latin dance, mentre Nathalie, con My Love Won’t Let You Down, conquistava i cuori più romantici. Captain Sensible con Wot aggiungeva un pizzico di follia alla scena, mentre la Greg Kihn Band faceva ballare con Jeopardy. Ad Visser e Daniel Sahuleka con Giddy Up a Gogo portavano invece una ventata di funk, a dimostrazione di quanto variopinto e ricco fosse il panorama dance di quell’anno. Nel regno del pop britannico spiccavano i Kajagoogoo, con Too Shy, brano che permise al giovane Limahl di mostrare la sua voce e la sua inconfondibile chioma bionda. E ancora i Tears for Fears con Change, gli Yazoo con Don’t Go, e gli Indeep con Last Night a DJ Saved My Life, autentico inno alla cultura del clubbing e al potere salvifico della musica.
Sorprendentemente, però, non tutto ciò che oggi consideriamo un classico ottenne all’epoca il successo meritato. È il caso dei Toto, che con Africa non riuscirono a sfondare nelle classifiche italiane, lasciando spazio a un gruppo, i Key of Dreams, destinato a essere ricordato più per aver reinterpretato proprio Africa che per altri meriti artistici. Anche questo è parte del fascino degli anni ‘80: l’imprevedibilità delle mode e dei gusti, il continuo oscillare tra il successo planetario e l’oblio improvviso.
Tra le sorprese del 1983 va ricordato anche un nome che proveniva da tutt’altro mondo, quello del rock: David Bowie. Con Let’s Dance il Duca Bianco si reinventò ancora una volta, trasformandosi in un perfetto interprete della cultura dance, con una canzone che univa eleganza, groove e senso dello spettacolo. Bowie riuscì, come pochi altri, a dimostrare che la dance non era un genere ‘minore’, ma un territorio creativo capace di accogliere anche i giganti della musica. E poi c’è Maniac di Michael Sembello, una delle canzoni più rappresentative del periodo, resa celebre anch’essa dalla colonna sonora di Flashdance. Riascoltando oggi quei brani, si riscopre un’energia autentica, una felicità contagiosa e un’irresistibile voglia di muoversi.
Per ascoltare alcuni dei brani citati in questo articolo cliccare qui e scegliere il podcast ''Ottanta... voglia di musica".