BELLUNO - Una tragedia familiare risalente a 22 anni fa, la morte per annegamento di un ragazzo di 12 anni, ritorna a pesare sulla famiglia con una beffa che brucia come una seconda ferita. È l’effetto della recente sentenza della Corte di Cassazione che ha riscritto le responsabilità di quell’episodio drammatico. 

A rimanerne travolti, ancora una volta, sono i genitori di Emanuele Costa, il ragazzino che nel luglio del 2003 perse la vita nel Lago di Santa Croce, in provincia di Belluno, finendo in una pozza di acqua e fango in una zona del bacino temporaneamente prosciugata per lavori. 

La famiglia di Emanuele — la madre Maria Vittoria e i nonni — aveva ottenuto in primo grado un risarcimento complessivo di 600mila euro, riconosciuto a fronte della mancata segnalazione del pericolo da parte di Enel, che in quel periodo aveva abbassato il livello del lago per interventi alla centrale idroelettrica.  

Il Tribunale aveva infatti rilevato l’assenza di adeguata cartellonistica in un’area resa insidiosa dalla presenza di sabbia, apparentemente compatta ma in realtà instabile. 

Tuttavia, la Corte d’Appello ribaltò la decisione, stabilendo un concorso di colpa a carico della madre del ragazzo. E ora, la Cassazione ha confermato quella linea, chiudendo la vicenda giudiziaria con una sentenza che impone alla famiglia la restituzione del 20 per cento del risarcimento ricevuto, in quanto Emanuele e la madre avrebbero avuto una parte di responsabilità nella tragedia. 

Secondo i giudici supremi, infatti, la donna avrebbe omesso la dovuta vigilanza sul figlio, che non sapeva nuotare e che, il 17 luglio 2003, si immerse in quella che appariva come una zona sicura, rimanendo invece intrappolato nel limo. 

“È una sentenza inappellabile che non comprendiamo e che non riusciamo ad accettare”, hanno commentato i legali dei familiari, esprimendo amarezza per una decisione che, oltre al dolore della perdita, impone alla famiglia anche il peso di un rimborso economico.