Sono passati 40 anni ma i fronti sull’aborto rimangono contrapposti e inconciliabili. Un tema che nella società italiana è sempre stato e continua a essere divisivo. Il 17 maggio 1981 gli italiani respinsero i due referendum abrogativi che volevano modificare la legge 194: “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” approvata il 22 maggio 1978, in un’Italia in piena emergenza terrorismo alle prese con il rapimento e poi con il delitto Moro.
Gli italiani scelsero di preservare quella legge che consente alla donna l’interruzione volontaria di gravidanza in una struttura pubblica nei primi 90 giorni di gestazione e, solo per motivi di natura terapeutica tra il quarto e il quinto mese, e ai medici l’obiezione di coscienza.
Anche i referendum erano contrapposti: da una parte i Radicali proponevano una piena liberalizzazione dell’aborto estendendolo anche nelle case di cura private; dall’altra il Movimento per la Vita con due quesiti: uno ‘massimale’ che chiedeva l’abrogazione della legge 194 e l’altro ‘minimale’ per cancellare gli articoli che tutelavano l’autodeterminazione della donna riconoscendo come lecito soltanto l’aborto terapeutico.
All’epoca si costituirono due comitati in difesa della legge: uno tra partiti e associazioni miste; uno solo di donne, con associazioni femminili e gruppi femministi. “Salivamo su una 500 attraversando i quartieri - ricordano le attiviste di allora - annunciando con un megafono l’appuntamento del giorno dopo in una casa per discutere sulla salute delle donne o dei bambini. Non potevamo parlare di aborto perché le donne si sarebbero vergognate”.
Gli italiani respinsero tutti i quesiti: quello radicale con l’88,4% dei no e quello del Movimento per la Vita con il 68% dei no.