Fabrizio De André e Pfm. L’incontro che fu, fuori dagli schemi, tra il cantautorato e il prog rock. “Il nostro fu un rapporto molto, molto intenso perché De André era una persona intensa e non scherziamo neppure noi. Il risultato fu un rapporto passionale con litigate furiose e forti abbracci intensi”, ricorda Patrick Djivas, il bassista della band per la quale ha scritto gran parte dei brani dal 1980. “Ci incontrammo condividendo la volontà di fare qualcosa di relativamente nuovo, non del tutto perché in America questa cosa già serpeggiava con Bob Dylan che era diventato elettronico e aveva aperto le porte a tanti artisti nel mondo”. Nel 1978 la Pfm e De André realizzarono un tour, al quale fece seguito un album dal vivo che segnò la storia della musica italiana. A 45 anni di distanza, la band è tornata in tour nel 2023-2024 per celebrare l’iconico sodalizio e ora è uscito l’album live “Pfm canta De André Anniversary”, registrato durante quei live. “Di una cosa la Pfm può andare orgogliosa: di avere regalato all’Italia vent’anni di Fabrizio - racconta ancora Djivas -. Lui aveva lasciato la musica, faceva il contadino ed era felice così. Il progetto insieme è nato un po’ per caso: ci venne a vedere suonare in Sardegna. Noi eravamo in grande forma, dopo un’esperienza in America. Ci invitò a pranzo nel nostro giorno libero e durante la giornata Fabrizio scherzò: l’unica cosa che mi farebbe pensare di tornare a fare un concerto, sarebbe avere una band come voi. Era una battuta più che un invito. Noi lo prendemmo sul serio. Fu un progetto in cui tutto si incastrò alla perfezione, niente si mise di traverso”. Non fu tutto rose e fiori, perché i pareri contrari furono molti. “Amici, parenti, case discografiche: tutti lo sconsigliavano. Ma lui era un bastian contrario. E poi c’era Dylan...”. L’ok arrivò, ma per preparare il tour c’era poco tempo. “E allora ci dividemmo le canzoni. Questo divenne una delle chiavi di quel disco che fu molto vario: si capiva chi aveva il brano in mano, perché ognuno di noi mise in evidenza il suo strumento – ricostruisce il musicista che racconta anche che per non mettere De André in difficoltà –. Lui era un solista, che suonava per i fatti suoi, avrebbe potuto avere problemi ad andare a tempo con gli altri”, gli lasciava nelle casse spie sul palco, solo la sua chitarra e la sua voce. Non quella degli altri. Un sodalizio che, naturalmente, fu osteggiato all’inizio dai rispettivi fan (“ci consideravano dei traditori”), ma che poi si rivelò in tutta la sua potenza. “Ci fu solo un ‘intoppo’: il rapimento nel 1979 di Fabrizio. Perché in programma c’era anche un disco in studio, ma la prigionia interruppe tutto e quando fu liberato la Pfm era impegnata in America. Oggi, dice Patrick, collaborazioni come quella sono più facili: “Farebbero parlare e dubitare meno. Il problema è che oggi la musica ha preso una piega diversa e forse non servirebbe a molto”. Da più di 50 anni sotto i riflettori, la forza della Pfm è soprattutto nell’approccio con i live, che riprenderanno ad aprile con Doppia Traccia, metà show dedicato alla Pfm, metà a Fabrizio De André.