Non ha colto di sorpresa la comunità di Hollywood l’annuncio del figlio Kiefer della scomparsa di Donald Sutherland, perché da tempo la malattia l’aveva tenuto a letto a Miami, lontano dal suo Canada a cui aveva giurato eterna fedeltà fin da ragazzo quando tra un futuro da ingegnere (aveva preso il diploma) e uno da attore avevo scelto quest’ultima carriera. Nato il 17 luglio del 1935 nel distretto canadese di New Brunswick, cresciuto dai genitori di modeste possibilità tra la Nuova Scozia e Toronto, Donald McNichol Sutherland aveva sangue scozzese, tedesco e inglese ed è forse per questo che in carriera trovò le migliori soddisfazioni nel cinema europeo anche se la gloria (e un Oscar onorario nel 2017) gli vennero oltreoceano. 

Questa duplicità professionale è confermata, davvero un caso fortuito, dal suo vero e proprio debutto nel cinema, ovvero “Il castello dei morti vivi” girato in Italia da un oscuro Lorenzo Sabbatini nel 1964.Subito dopo la parentesi italiana e il successo americano, Donald Sutherland si ritrovò al centro dello star system e potè finalmente scegliere ruoli e caratteristiche che si addicevano al suo stile recitativo in cui trionfavano l’ironia, l’understatement, il passo felpato e una voce dai toni bassi e inconfondibili. Ma è stata proprio l’Italia a dargli la vera misura della sua statura attoriale con due capolavori: Giacomo Casanova in cui si incarnò per Federico Fellini e lo spietato Attila con cui Bernardo Bertolucci lo trasformò in un memorabile “cattivo” in “Novecento”. Sutherland aveva il dominio assoluto della scena; non era bello ma di un fascino così seduttivo che apparve presto come un “New Lover”; non era aggraziato ma si muoveva con la leggerezza del ballerino, non era destinato ai ruoli da eroe e prim’attore ma, anche e soprattutto da “cattivo”, giganteggiava contro ogni altro presunto eroe.