I tamburi di guerra che continuano a rullare in Ucraina e in Medio Oriente non risuonano soltanto nei teatri di conflitto, ma attraversano gli oceani fino a battere contro le porte della politica australiana.
Nelle strade delle nostre città, le voci per Gaza e per la Palestina si alzano fragorose, mentre, purtroppo, per l’Ucraina si avverte un silenzio che rischia di diventare assordante.
Negli ultimi giorni, lo scenario si è mosso con velocità sorprendente, soprattutto sul fronte mediorientale: il dramma umanitario nella Striscia di Gaza ha incrinato la compattezza dell’appoggio internazionale rispetto alle scelte del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
L’Australia, chiamata a tenere la barra dritta tra alleanze strategiche sempre più complesse, principi di diritto internazionale e sensibilità dell’opinione pubblica, sembra trovarsi ora davanti a un bivio. Da una parte la fedeltà a un quadro geopolitico consolidato, dall’altra la necessità di rispondere a una crescente pressione morale e diplomatica.
In questo contesto, la squadra di governo di Anthony Albanese si muove su un crinale delicato, cercando di evitare scivolate che possano mettere in difficoltà rapporti internazionali costruiti negli anni, ma anche di non apparire insensibile alle istanze che scuotono la società australiana.
Sul fronte mediorientale, la linea del governo di Anthony Albanese si sta delineando con sfumature sempre più visibili, pur mantenendo un equilibrio che molti osservatori giudicano ancora troppo precario.
Il primo ministro, pur confermando, a margine della sua visita in Nuova Zelanda, che ogni decisione verrà presa in autonomia e in maniera indipendente, non ha ancora annunciato una tempistica ufficiale per il riconoscimento formale dello Stato di Palestina e non ha dato alcuna anticipazione rispetto a eventuali sanzioni da applicare nei confronti di Israele, sulla scorta di quanto altri Paesi stanno iniziando a fare.
Tuttavia i segnali, a livello politico, nella squadra di governo, si moltiplicano. La ministra degli Esteri Penny Wong ha firmato un documento congiunto che chiede all’Autorità Palestinese di assumere un “ruolo centrale” nella futura gestione politica di uno Stato arabo indipendente e lo stesso primo ministro Albanese ha avuto un colloquio diretto con il presidente Mahmoud Abbas.
Anche il ministro degli Interni Tony Burke ha aperto uno spiraglio importante, affermando che l’Australia potrebbe procedere al riconoscimento anche se Hamas mantenesse il controllo di parte del territorio, richiamando precedenti internazionali come il riconoscimento dei governi di Siria e Iraq nonostante la presenza dei terroristi dell’ISIS in alcune aree. Burke, inoltre, nel commentare il piano di Benjamin Netanyahu di occupare parte della Striscia, l’ha definito come una violazione del diritto internazionale.
Sul fronte ucraino, il Primo ministro ha riaffermato il pieno sostegno a Volodymyr Zelensky, respingendo qualsiasi ipotesi di compromesso territoriale con Mosca. “La Russia e Putin sono l’aggressore. Putin può porre fine a tutto questo domani, se si ritira dall’Ucraina”, ha ribadito Albanese da Arrowtown, in Nuova Zelanda, al termine del vertice con il primo ministro neozelandese Christopher Luxon.
Le parole di Albanese arrivano mentre il presidente ucraino rifiuta la proposta russa di scambio territoriale nel Donetsk e in un momento in cui in Europa si discute di una possibile iniziativa diplomatica guidata da Donald Trump, che potrebbe incontrare Vladimir Putin in Alaska. Leader europei come Macron, Meloni, Starmer e von der Leyen hanno, infatti, accolto con favore ogni sforzo per fermare le ostilità, pur mantenendo ferma la linea del sostegno militare e delle sanzioni contro la Russia.
Ad aggiungere elementi di urgenza politica in un contesto non privo di possibilità di errori poiché afferisce a un tema molto più grande che è quello delle storiche relazioni strategiche dell’Australia, si inserisce il fronte dell’accordo AUKUS.
Dall’elezione di Donald Trump, in particolare, i rapporti con gli Stati Uniti sembrano essere entrati in una fase di sottile ma crescente tensione, neanche troppo sotto traccia.
L’ultimo monito del Pentagono, secondo un rapporto reso noto da The Australian, invita Canberra a portare il budget della difesa al 3,5% del PIL come “nuovo standard globale”, e tutto sembra tranne un mero suggerimento di circostanza: è il segnale inequivocabile che Washington misura la credibilità dell’alleanza, e quindi la solidità dell’AUKUS, non soltanto sulle parole, ma sulla capacità di tradurle in investimenti concreti.
L’AUKUS, con l’obiettivo di avere in Australia almeno tre sottomarini nucleari di classe Virginia a partire dal 2030, è un progetto ad alto impatto dal punto di vista delle risorse finanziarie, che richiede un impegno di lungo periodo e un coordinamento serrato tra le forze armate dei tre Paesi. Secondo il Pentagono, l’attuale livello di spesa australiano, fermo poco sopra il 2% del PIL, non basterà a modernizzare le forze armate e garantire la necessaria forza di deterrenza regionale contro una Cina sempre più assertiva.
La prudenza del governo Albanese, che ha programmato aumenti significativi della spesa per la difesa solo a partire dal 2028-29, in effetti, sembra stridere con il senso di urgenza americana manifestato su più livelli internazionali, anche in chiave Alleanza Atlantica. La Casa Bianca e il dipartimento della Difesa temono che un ritardo negli investimenti possa compromettere non solo le capacità operative australiane, ma anche l’efficacia dell’intero dispositivo strategico concepito per contenere l’espansione di Pechino nel Pacifico.
La pressione di Washington si fa tanto più intensa perché accompagnata da un calendario diplomatico fitto: nel giro di pochi mesi, il primo ministro Albanese sarà impegnato in una serie di vertici multilaterali – dal Pacific Islands Forum al G20, passando per l’Assemblea Generale dell’ONU – con l’obiettivo dichiarato di rafforzare la posizione australiana nello scenario globale e di avere, finalmente, un incontro diretto con Donald Trump.
Ma la partita non è solo economica e militare. Sullo sfondo, infatti, c’è una Cina che alterna segnali di distensione, come l’accoglienza calorosa riservata ad Albanese a Pechino, a dichiarazioni più nette, come l’avvertimento di qualche mese fa da parte dell’ambasciatore cinese in Australia Xiao Qian contro “l’onere fiscale” di un aumento delle spese militari.
Non mancano tuttavia tentativi di prendere posizione, il vice primo ministro e ministro della Difesa Richard Marles, ieri mattina nel corso di un’intervista televisiva al programma di approfondimento politico dell’ABC, Insiders, ha ribadito la solidità dei rapporti con Washington, prendendo di mira, in maniera neanche troppo velata Elbridge Colby, sottosegretario per le politiche della Difesa e responsabile della revisione in corso dell’accordo AUKUS.
Marles ha ricordato che il diretto superiore di Colby, il segretario alla Difesa Pete Hegseth, è un convinto sostenitore dell’AUKUS. “Parlo con il mio omologo regolarmente e abbiamo un dialogo continuo. Negli Stati Uniti c’è sostegno per l’AUKUS e questo è evidente in tutte le dichiarazioni rilasciate. È, fondamentalmente, [un accordo] nell’interesse strategico degli USA”.
Insomma, l’ennesima riprova di come Canberra debba muoversi tra molte forze contrapposte, cercando, nel caso di specie, di preservare i benefici economici della relazione con la Cina senza indebolire il legame strategico con Washington e Londra.
Il rischio per Albanese, in generale, è che l’ambiguità diventi una cifra politica difficile da sostenere: sul rafforzamento della difesa, come sul riconoscimento dello Stato di Palestina, il tempo delle caute attese potrebbe esaurirsi presto. Gli alleati chiedono chiarezza e impegno, i partner regionali cercano garanzie concrete, e l’opinione pubblica interna, sempre più polarizzata, guarda con attenzione alle scelte che definiranno la postura internazionale dell’Australia nei prossimi anni.