Non è di certo una soluzione, anzi, ma se né i laburisti, né la Coalizione riusciranno a formare un governo senza l’aiuto di indipendenti e partiti minori è colpa loro. La fiducia degli elettori bisogna guadagnarsela e gli esempi solo delle ultime 48-72 ore stanno dimostrando, una volta di più, perché sta succedendo quello che sta succedendo. Cominciamo da Peter Dutton, perché quell’idea del referendum per chiedere il via libera costituzionale (che ieri il ministro ombra del Tesoro, Angus Taylor, ha smentito parlando di opzione e non di programma) di poter espellere indesiderabili con la doppia cittadinanza, non può essere presa seriamente. Ed è difficile credere anche alla teoria del “con noi non sarebbe successo” per ciò che riguarda i dazi americani, assicurando che una missione immediata a Washington per convincere Donald Trump, li avrebbe evitati.
“Ci è riuscito Malcolm Turnbull” nel 2018, ha spiegato il leader dell’opposizione, “quindi si poteva fare”. Una critica sull’operato di Albanese al riguardo della presunta trasferta mancata alla Casa Bianca che il leader liberale si poteva tranquillamente risparmiare, dato che il Trump di oggi (con il braccio destro Elon Musk) è ben diverso dal modello originale, già problematico, di qualche anno fa e il risultato favorevole di un ‘tu per tu’ sarebbe stato comunque tutto meno che scontato. Giri a vuoto in un momento in cui, forse, sarebbe elettoralmente più opportuno concentrarsi su due temi che vanno per la maggiore, e continueranno a farlo nelle sette-otto settimane che ci separano dal voto, come il carovita e lo strettamente legato costo dell’energia. Tutto il resto viene dopo.
Della serie della delusione crescente con i maggiori partiti e i loro uomini di punta, anche le manovre preventive di questi ultimi due-tre giorni del ministro del Tesoro, Jim Chalmers, che sta dimostrando di essersi specializzato nel prendersi il merito di qualsiasi, anche se minima, notizia positiva in campo economico, ma di essere ancora più pronto a dirottare sugli altri o sulle circostanze al di fuori del suo controllo, qualsiasi realtà negativa sulla salute precaria economico-finanziaria del Paese.
L’inflazione è scesa per merito del piano di contenimento della spesa, senza perdere di vista gli interessi dei cittadini, del governo, ma potrebbe rialzare la testa a causa dei dazi di Trump – ha spiegato Chalmers in un intervento al Circolo della stampa di Brisbane -; i tassi d’interesse sono scesi dopo una serie infinita di rialzi e una lunga pausa ordinata della Reserve Bank grazie all’attenta gestione laburista; il rosso di gestione è ritornato, dopo due anni con il segno più, un po’ perché era in preventivo dopo l’aggiustamento dei prezzi delle materie prime, un po’ perché proprio alla vigilia della presentazione del budget (che Albanese e la maggior parte dei suoi colleghi avrebbero preferito evitare) è arrivato il ciclone non ciclone Alfred a devastare, oltre ai piani elettorali, alcune aree costiere del Queensland e del New South Wales, con circa 1,2 miliardi di perdite preventivate per le casse federali (anche se c’è già una voce di bilancio che copre questo tipo di emergenze).
Nessun tipo di responsabilità se qualcosa non va come dovrebbe andare, da parte di Albanese, Chalmers e, soprattutto, del ministro dell’Energia e dei Cambiamenti climatici, Chris Bowen, nemmeno per i costi energetici che, invece di scendere, come promesso nella campagna del 2022, continuano a salire perché gli impegni presi per diventare uno dei Paesi-guida nella lotta ai cambiamenti climatici stanno forzando un’accelerazione della diversificazione energetica non adeguatamente programmata, con continui interventi correttivi per garantire il servizio e soddisfare la domanda, appoggiandosi ai combustibili fossili che si vogliono eliminare.
Rincari e non riduzioni delle spese a carico di famiglie e aziende con necessità elettorale, che sarà confermata nel budget di martedì, di ricorrere ad un secondo giro di aiuti per fare fronte al caro-bollette: e così né Albanese, né Chalmers e meno di tutti l’impavido portabandiera dell’ambizioso piano di rinnovamento energetico, Chris Bowen, si prendono la minima responsabilità per le difficoltà extra che hanno imposto sui budget familiari e alle imprese australiane sul fronte della competitività internazionale, creando uno svantaggio rispetto a Paesi concorrenti dove i costi dell’energia sono notevolmente inferiori.
Niente pause, niente ridimensionamenti, niente ammissioni che forse si sta cercando di correre troppo e si stanno creando problemi più grossi del necessario, meglio invece far sparire qualche scheda di riferimento sugli obiettivi che erano stati fissati solo tre anni fa, così si perdono nella nebbia di promesse che ora sembrano diventate solo ambizioni, come: l’82% del fabbisogno energetico del Paese prodotto dalla rinnovabili entro il 2030 che, secondo gli esperti della Commissione sull’Energia nominata dallo stesso governo, difficilmente potrà essere raggiunto; i 300mila nuovi posti di lavoro che non si stanno materializzando nel campo dei progetti di produzione di energia eolica e solare e quell’89% del mercato dell’auto, sempre con scadenza 2030, sostenuto da veicoli elettrici.
Non si cambia rotta e non si ammettono errori di valutazione o promesse non mantenute (i 275 dollari in meno mai arrivati delle bollette energetiche, diventeranno un comodo slogan usato dall’opposizione all’insegna del “non fidatevi” di nuovi impegni laburisti), ma in campo energetico, sul fronte dell’alternativa, non c’è sicuramente chiarezza e tanto meno precisi traguardi: unica vera differenziazione, con mille incognite e l’impressione di una scarsa convinzione perfino all’interno della stessa squadra liberal-nazionale, quella del nucleare da far entrare nel mix della transizione ecologica. Un’opzione che, comunque, ha traguardi talmente lontani in fatto di impatto sul caro-energia (se mai si procederà in quella direzione) da non poter avere particolari effetti elettorali se non negativi, grazie alla propaganda contro che, a prescindere dalla validità o meno del piano, sta già facendo il governo, con crescendo garantito una volta che inizierà la campagna ufficiale.
Il “votate per noi” per evitare compromessi, ricatti, un procedere a rilento con logoranti negoziati legati ad un governo di minoranza, non inciderà più di tanto nella corsa alle urne, tanto più che - come è stato precedentemente riportato -, in base ai dati dell’ufficio di statistica, per la prima volta in questa tornata elettorale si registra un cambio generazionale degli aventi diritto al voto: la maggioranza passa ai Millennials (i nati cioè tra gli anni ’80 e ’90) e la Gen Z (i nati a partire dalla metà degli anni ’90 fino al 2010) che superano i cosiddetti “baby-boomer” (la generazione nata dopo la seconda guerra mondiale, tra il 1946 e il 1964).
Quindi la vasta squadra degli idealisti, ottimisti, cittadini del mondo (secondo alcuni studi su comportamenti collettivi) che fanno parte della generazione Y (i Millennials) e dei pragmatici, disincantati e completamente immersi nel digitale della Gen Z (i Centennials) avrà la meglio, in termini numerici, sull’elettorato che per anni aveva comandato l’attenzione dei politici. Cambia la ‘maggioranza’ e cambia di conseguenza il tipo di risposte che ci si aspetta dalla politica: meno fronzoli, meno tradizioni, meno particolari, più innovazione, più immediatezza anche nella comunicazione.
Bandiere laburiste o liberali, per storia e valori, quindi, sempre più scarse e voto libero, spesso aperto al mercato del tutto e subito, della soluzione al problema del momento, in alcuni casi al limite della personalizzazione, senza perdersi in complicazioni di conseguenze, paure e strategie. La fedeltà sembra tenere solo per il ‘brand’ dei verdi: ormai da tempo attorno al 12-13 per cento fisso di consensi, con dirottamente quasi automatico dei voti preferenziali verso il Partito laburista. Una specie di “credo” che non significa un minuzioso interesse per quello che viene proposto tanto che, secondo un sondaggio dell’agenzia Redbridge condotta in 20 seggi chiave per l’esito delle prossime elezioni, la maggior parte di coloro che hanno espresso la loro intenzione di votare ‘Green’ non hanno la minima idea di chi sia il leader del partito. Ma il rilevamento mette in luce un’altra realtà, a dimostrazione di indifferenza, quando va bene, e fastidio, quando va male, per i maggiori partiti e i loro leader: Anthony Albanese, Peter Dutton e Adam Bandt hanno, infatti, fatto registrare un notevole indice di gradimento negativo, rispettivamente del 16, 11 e 23 per cento. Teal e indipendenti vari ringraziano in anticipo.