Il primo ministro Anthony Albanese ha iniziato sabato scorso uno dei viaggi internazionali più significativi del suo mandato, con una fitta agenda che intreccia diplomazia, economia e transizione energetica. La sua missione lo porterà negli Stati Uniti, nel Regno Unito e negli Emirati Arabi Uniti, con obiettivi strategici che vanno dal rafforzamento delle relazioni internazionali alla promozione degli ambiziosi piani australiani per le energie rinnovabili e la decarbonizzazione dell’economia.
Albanese intende utilizzare questi 11 giorni all’estero ritagliandosi spazi d’intervento sul palcoscenico internazionale piuttosto importanti, dato che andrà a toccare temi di primissimo piano sull’agenda mondiale come il riconoscimento dello Stato palestinese, la sicurezza globale, il futuro dell’economia non solo australiana in relazione al percorso (non uniforme, visti i vari livelli di ambizione e realismo) intrapreso da buona parte del mondo industrializzato per ridurre le emissioni di gas serra. E, potenzialmente, potrebbe scapparci anche l’ormai ‘famoso’ primo incontro con Donald Trump.
Prima tappa a New York, dove il primo ministro parteciperà per la prima volta alla settimana dei leader dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Accompagnato dai ministri Penny Wong (Affari Esteri) e Chris Bowen (Clima ed Energia), il capo di governo intende mettere in evidenza al mondo l’impegno dell’Australia sul fronte climatico, come dimostrato con l’annuncio di giovedì scorso di ridurre le emissioni, entro il 2035, tra il 62 e il 70 per cento rispetto ai valori del 2005.
Una soglia decisamente ambiziosa che sarà uno degli elementi chiave per sostenere la candidatura australiana ad ospitare la prossima conferenza ONU sul clima (COP31), in collaborazione con i Paesi del Pacifico. In questo contesto, Albanese cercherà di convincere la Turchia a ritirarsi dalla corsa per l’organizzazione del summit, attraverso un possibile incontro con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan.
La parte ‘diplomatica’ della missione salirà di grado con la partecipazione di Albanese alla conferenza internazionale sulla soluzione del conflitto israelo-palestinese, co-ospitata da Francia e Arabia Saudita e l’attesa ufficialità, nella riunione plenaria dell’assemblea ONU, della decisione presa sulla Palestina. L’Australia, come preannunciato, si unirà ad altri Paesi occidentali – tra le ‘novità’, Canada, Belgio, Portogallo e Regno Unito – nel dichiarare formalmente l’intenzione di riconoscere lo Stato di Palestina, con l’obiettivo di spingere per riforme all’interno dell’Autorità Palestinese, cercando di imprimere una svolta fondamentale al processo di pace che rimane, comunque, tutto in salita.
Uno degli aspetti centrali del viaggio è anche quello economico, con il chiaro proposito di attirare capitali internazionali per finanziare la transizione energetica e industriale. Il piano “Future Made in Australia” è concepito per trasformare il Paese in una potenza nel campo dell’energia pulita e rilanciare la produzione interna attraverso la spinta delle rinnovabili, lo sviluppo della tecnologia verde e di una industria a basse emissioni.
Albanese intende usare questa, relativamente lunga, trasferta per convincere investitori e leader globali che l’Australia rappresenta una destinazione stabile, innovativa e redditizia per gli investimenti legati alla transizione ecologica. Il percorso in materia, nonostante l’ostentato ottimismo della squadra laburista, è tutt’altro che semplice sia dal punto di vista pratico che politico.
Il nuovo obiettivo climatico per il 2035 rappresenta la più importante sfida che il governo Albanese si è autoimposto. Per raggiungere una riduzione delle emissioni del 62-70%, il Paese è chiamato a una trasformazione epocale della sua produzione industriale, ma soprattutto della sua intera struttura energetica: un’accelerazione con numeri da capogiro, partendo dai valori attuali e quelli fissati per il 2030 che molti osservatori già ritengono fuori portata.
Per arrivare al nuovo obiettivo è necessario, infatti, portare le rinnovabili oltre il 90% del mix energetico, triplicare l’energia solare, quadruplicare quella fornita dagli impianti eolici, espandere lo stoccaggio mediante batterie, dimezzare le emissioni industriali, elettrificare metà del parco veicoli nazionale e ridurre massicciamente le emissioni nei settori agricolo – compito tutt’altro che facile -, edilizio e dei trasporti.
Traguardo ambizioso, ma frutti concreti - secondo la Climate Change Authority e il Ministero del Tesoro - perché se tutti ‘staranno al gioco’ facendo la loro parte, il piano di Bowen e Albanese dovrebbe far crescere l’economia australiana del 28% entro il 2035 e di 2,2 trilioni di dollari entro il 2050 quando si raggiungerà il ‘Nirvana’ della neutralità carbonica.
Per far capire meglio al pubblico che “il gioco vale la candela” si è arrivati anche ad una stima sull’aumento del reddito pro capite, con un ‘bonus’ di 12mila dollari nel 2035 e 36mila dollari nel 2050. Sulla carta, insomma, pochi dubbi, poi però bisogna fare i conti con qualche certa difficoltà da superare in fretta, come gli ostacoli burocratici agli investimenti, la resistenza sociale ai grandi progetti eolici e solari, e la realtà di prezzi dell’energia che continuano a salire e della competitività industriale che continua a scendere.
E poi c’è l’opposizione: iI Partito liberale ha già bocciato il piano climatico di Albanese etichettandolo come “una fantasia” e un “disastro economico in attesa di materializzarsi appieno”; i nazionali continuano invece a rendere quasi impossibile qualsiasi programma sia di governo che d’alternativa.
La leader Sussan Ley ha anche accusato il governo di non essere abbastanza onesto e trasparente sui costi reali per le famiglie e le imprese. Secondo i liberali, poi, da quando Albanese è alla guida del Paese, le emissioni, nonostante i continui proclami di Bowen, sono rimaste ferme a -28% (contro il -43% previsto per il 2030) e le bollette elettriche sono aumentate del 39%, invece di diminuire come era stato promesso.
Nel frattempo, il Business Council of Australia ha espresso sostegno condizionato al progetto federale: esiste un percorso per raggiungere gli obiettivi, ma esso richiede “investimenti enormi, riforme strutturali e una collaborazione eccezionale tra pubblico e privato”. Anche il Minerals Council of Australia ha avvertito che la transizione va gestita con attenzione per non compromettere la competitività internazionale.
Oltre al clima, Albanese porterà avanti in tutte le tappe della missione,una fitta rete di incontri diplomatici per rafforzare il ruolo dell’Australia come un Paese di media potenza nel sistema multilaterale. Tra i temi principali: la guerra in Ucraina, il conflitto a Gaza, la sicurezza nel Pacifico (minata dai due trattati mancati a Papua e Vanuatu) e la promozione del patto AUKUS sui sottomarini nucleari che riguarda sia Washington che Londra.
Si continua invece, nell’entourage del primo ministro, a gettare acqua sul fuoco sul possibile incontro – anche informale – con Trump, che la scorsa settimana ha alzato speranze e aspettative dichiarando pubblicamente che vedrà molto presto Albanese. Nonostante l’assenza di un appuntamento bilaterale ufficiale, è quasi certo che i due possano perlomeno stringersi la mano durante una delle numerose occasioni diplomatiche previste a New York.
Durante la settimana dell’Assemblea Generale, il Primo ministro ospiterà anche un evento dedicato ai social media, per condividere con altri leader la politica pionieristica della sua amministrazione che vieta l’accesso alle piattaforme digitali ai minori di 16 anni. Un’iniziativa accolta con interesse da altri Paesi, che vedono l’Australia come apripista nella regolamentazione dell’ambiente digitale.