L’assenza più lunga di sempre: Anthony Albanese è stato lontano dai lavori parlamentari in totale per un’intera settimana. Ma, paradossalmente, non è mai sembrato così presente. Prima la missione a Washington, poi a Kuala Lumpur e Gyeongju (Corea del Sud) per i due vertici ASEAN e APEC. Lontano da Canberra, a firmare accordi e consolidare alleanze mostrando un’immagine di leader internazionale, sicuro, a proprio agio a fianco dei ‘grandi’ della Terra, proiettato sullo scenario globale. E in Aula, durante la sua assenza, perfetta normalità. Nessun mormorio, nessun riposizionamento, nessun intervento fuori luogo, nessuno spazio extra per l’opposizione. La macchina laburista, al contrario di quella della Coalizione, funziona alla perfezione, all’insegna della coerenza e della massima disciplina, nonostante più di qualcosa che non gira a pieno regime né in campo economico (inflazione e disoccupazione in rialzo), né in quello programmatico con i costi energetici sempre più motivo dei ‘problemi’ dell’inflazione e della disoccupazione.

La percezione sull’autorità e le responsabilità di Albanese è cambiata dopo la straripante vittoria dello scorso maggio: nessuno si sogna, infatti, di rispolverare ‘l’Airbus Albo’, che era stato usato a più riprese per criticare le missioni all’estero del capo di governo durante il suo primo mandato, ora che il primo ministro ha superato a pieni voti quello che era considerato l’esame più difficile e importante alla Casa Bianca. Nessuna critica, quindi, per le assenze, più che giustificate dai risultati ottenuti.

Gli umori in casa laburista sono sempre stati piuttosto buoni per ciò che riguarda la leadership di Albanese, ma dopo la maggioranza ‘extra large’ uscita dalle urne, non c’è il minimissimo dubbio che il primo ministro abbia saldamente in mano le redini del partito, grazie alle sue ‘caratteristiche’ politiche, che non sono di certo nuove, data la lunghissima esperienza parlamentare: un misto di competenza e saper fare, che passa dalla capacità di ascoltare i colleghi all’essere pronto a delegare quando è necessario farlo, ma anche dall’abilità (quando serve) di decidere da solo senza dare l’impressione che sia così. Perché quando c’è da intervenire, Albanese lo fa, ma con una silenziosa preparazione per evitare discussioni in pubblico che possono scalfire l’immagine di una squadra che, anche se non vive sempre di una felicissima armonia, ha sicuramente la grande capacità di dare l’impressione di essere sempre unita e altamente disciplinata. 

Nessun vuoto di potere da riempire, quindi, le rare volte che il capo di governo non è in Aula: il suo vice Richard Marles lo sostituisce con una certa naturalezza e lo stesso Jim Chalmers - spesso indicato dagli osservatori come una specie di Paul Keating del nuovo corso, in fatto di una ‘naturale successione’ - non mostra né fretta, né alcun risentimento anche dopo la grande sconfitta subita, proprio per opera di Albanese, sul progetto di riforma dei benefici extra sui fondi pensione, che prevedeva di tassare guadagni non realizzati oltre un certo tetto di depositi. Le critiche generali sul progetto (più da parte dell’opinione pubblica che da parte di un’opposizione che aspetta ancora di ‘capire ufficialmente’ i motivi della sua disfatta elettorale) hanno convinto il primo ministro ad intervenire, imponendo - senza mai dare l’impressione fuori del Palazzo di averlo fatto - il dietrofront a Chalmers.

È così arrivato un ‘obbedisco’, senza mugugni pubblici, con tanto di scelta tattica, per rafforzare l’idea di una decisione in proprio, di annunciare la correzione di rotta con Albanese in missione in Asia. 

Ogni mossa calcolata nella rodata macchina laburista, come alcuni spostamenti sullo scacchiere di governo nel dopo elezioni, che hanno portato ad affidare la complicata gestione dei Servizi Sociali ad un’esperta ‘rivale’ (per la leadership) come Tanya Plibersek (molto lavoro e poca vetrina) che si era messa in rotta di collisione, nel precedente mandato di governo, con il settore minerario affidato invece a Murray Watt, meno ‘militante’ per ciò che riguarda un ambientalismo che non deve dare l’impressione di essere in alcun modo condizionato dai numeri dei verdi nel Senato. Anzi, il ministro proprio ieri, in un’intervista televisiva, ha ribadito l’importanza del nuovo corso laburista in relazione a nuove responsabilità decisionali e una maggiore apertura per ciò che riguarda progetti da accelerare nell’interesse della nazione. Vincoli più chiari per la salvaguardia dell’ambiente, ma maggiore libertà d’azione quando, negli interessi dello sviluppo di particolari iniziative (anche minerarie), bisogna decidere in fretta. Una riforma che metterà alla prova parlamentare sia la ‘maturità’ politica della Coalizione, che l’intransigenza di verdi e indipendenti su temi come impianti solari ed eolici, minerali critici, il mix energetico che continua, per ovvie necessità, ad includere - nonostante irritazioni e allarmismi vari -  gas e carbone.  

Scelta importante, in fatto di responsabilità e ministeri forti e complicati, anche quella che ha visto protagonista un altro  possibile nome del ‘dopo’: Tony Burke , infatti, passando dalle Relazioni industriali all’Interno e Immigrazione ha il suo bel daffare in un ruolo con indice di popolarità decisamente limitata.

Velleità controllate quindi ed esperienza sfruttata al meglio per il bene della squadra e la solidità del governo. Scelta tattica e ragionata anche quella di mantenere Chris Bowen - nonostante le critiche che si attira addosso per la sua spesso fastidiosa sicurezza in tutto quello che fa e dice -, nell’incarico di ministro per l’Energia e i Cambiamenti climatici. Bersaglio certo dei liberali e dei nazionali, e di una parte schierata dei media, per la sua intransigente corsa, con tutti i costi del caso, verso obiettivi di riduzione delle emissioni dettati da una convinzione che spesso dà l’impressione di essere diventata una specie di ‘missione’, di ‘credo’ che non ammette dubbi e critiche, da portare avanti a testa bassa.

La sua maggiore fortuna, oltre al lasciar fare tattico di Albanese, gli incredibili tormenti dell’opposizione che, sul tema del clima,  si sta veramente dilaniando al suo interno sia in casa liberale che in quella dei nazionali. Molto più sereni forse questi ultimi che, proprio negli ultimi due giorni, hanno deciso di dire ufficialmente ‘no’ allo zero netto del 2050. L’ambizione è una cosa, i fatti sono un’altra, quindi niente blindature di traguardi e percorsi obbligati; anzi la scelta è quella di accodarsi ai ritmi dei tagli delle emissioni dei Paesi dell’OECD, senza inutili strappi in avanti. I loro elettori lo chiedono e i loro rappresentanti sono perfettamente d’accordo, anche a costo di far vacillare il futuro della Coalizione. La parola ora passa direttamente ed esclusivamente ai partner maggiori di un’alleanza che scricchiola paurosamente.

La testardaggine di Bowen, quindi, strategicamente è utilissima per mantenere sotto scacco gli avversari di sempre ed evidenziare le loro divisioni, potendoli tranquillamente accusare di  negazionismo e incoerenza, sempre più lontani - a suo dire - dagli elettori e dai tempi in cui viviamo.

Sono passati solo pochi mesi dall’inizio del secondo mandato di Albanese e già si parla di formalità dell’ottenimento del terzo, nel 2028, che metterebbe il primo ministro sulla scia, in fatto di longevità al vertice, di Bob Hawke (con le sue quattro vittorie consecutive). Tutto prematuro, ovviamente, ma la Coalizione indubbiamente alimenta teorie e previsioni con le sue incredibili battaglie su magliette, imbarazzi diplomatici che lasciano il tempo che trovano, incertezze programmatiche in campo energetico che si trascinano dai primi anni 2000 e continue logoranti guerre interne che più esterne e rumorose non potrebbero essere: Ley, Tehan, Hastie, Price, Littleproud, Canavan, Joyce sono gli alleati migliori di un governo e un leader in salute, per ora, senza alcuna credibile alternativa.