BUENOS AIRES – “Dimentichiamoci per un attimo Dagli Appennini alle Ande, il racconto ambientato in Argentina del libro Cuore di Edmondo De Amicis”. La provocazione arriva, durante la tradizionale Cena del Lunes del Círculo Italiano, da Hugo Alconada Mon, giornalista investigativo de La Nación, pluripremiato per le sue inchieste (per esempio sul narcotraffico), e scrittore.

Cuore è del 1886 – ricorda – ma nel 1887 Eugenio Cambaceres publicò En la sangre (“Nel sangue”), un libro contro l’immigrazione italiana, accusata di distruggere le comunità argentine”.

Anche Nell’oceano, sempre di De Amicis, e El camino del esclavo blanco (“Il cammino dello schiavo bianco”), di David Viñas, raccontano una realtà ben poco edulcorata.

“Agli immigrati si offriva un futuro, ma in cambio dovevano stare con la bocca chiusa” spiega Alconada Mon. Lui stesso, come scrittore, ha affrontato il tema in due romanzi storici: La cacería de hierro (“La caccia di ferro”) e La ciudad de las ranas (“La città delle rane”), entrambi pubblicati da Planeta.

“Sono affascinato dal periodo degli ultimi 20 anni del XIX secolo – ammette –. Nei miei libri operano tre strati: il contesto storico-sociale dell’epoca, alcuni fatti e personaggi reali, frutto di ricerche d’archivio, e il racconto di fantasia”.  

Alcuni dati riferiti dal giornalista-scrittore ci danno una dimensione del fenomeno migratorio e della presenza italiana nel territorio rioplatense. “La fondazione de La Plata avviene nel 1882, nel 1884 viene organizzato il primo censimento – racconta –. Ebbene, il 40 per cento della popolazione era rappresentato da italiani, il 20 per cento da spagnoli, il 20 per cento da criollos e il restante 20 per cento dalle altre nazionalità. L’italiano era la lingua franca”.

Non a caso i primi quartieri si chiamarono Piccola Italia e Calabria Chica. Si pubblicavano tre giornali in italiano: Il figlio del mendicante, La Spada e Il Garibaldi.

Su una popolazione di 10.407 abitanti, l’88 per cento era costituita da uomini, mentre le donne nubili in età fertile erano appena 128.

“È evidente che un afflusso di immigranti di tale magnitudo avrebbe modificato gli equilibri politici – continua Alconada Mon –. Tanto che alle elezioni amministrative, dove anche gli stranieri potevano votare, i criollos erano ben consapevoli della superiorità numerosa degli italiano. Prima cercano di anticipare il giorno del voto per non dare tempo ai nemici di organizzarsi e trovare un candidato, poi lo rapiscono e infine cercano di rubare l’urna con i voti”. E siccome non ci riescono, al seggio finisce a coltellate.

“I giornali dell’epoca parlano di tre morti e 30 feriti all’arma bianca e per colpi di pistole – conclude lo scrittore –. Ma si racconta anche dell’uso di lance e addirittura di colpi d’accetta. Il tutto in una chiesa, dove all’epoca venivano organizzati i seggi”.

L’autore ricorda due tappe fondamentali per la storia dell’immigrazione in Argentina. Da una parte la legge 1420 del 1884 sulla scuola pubblica. “Nata dalla necessità di argentinizzare la popolazione, che ha permesso però l’alfabetizzazione di massa nello spazio di una generazione – dice –. Dall’altra la ley de residencia del 1902, che permetteva l’espulsione per decreto di indesiderabili, a cominciare dagli anarchici, anche senza nessun reato concreto commesso. Una prova del fatto che la storiografia è piana di ambivalenze e contraddizioni, che spesso la memoria tende a sfumare o addirittura rimuovere.

L’interesse per la storia dell’Ottocento non poteva esimere Alconada Mon dall’esprimersi sul giornalismo attuale, accusato di “dichiarazionismo”, per usare un termine di García Márquez. Ossia l’abitudine di utilizzare due dichiarazioni contrastanti, come se questo formasse automaticamente la verità. “Quello che serve nelle redazioni oggi – conclude – sono buoni cronisti, ma soprattutto buoni capi”.