Intravedo già da lontano i colori bianco e celeste della bandiera issata su un gazebo di All Nations Park, nel sobborgo di Northcote. Lo stemma del Comune di Soveria Mannelli, piccolo paese ai piedi della Presila catanzarese, in Calabria, si agita scomposto dal vento. Intorno è tutto un brulicare di persone che allestiscono tavolini da campeggio, tirano fuori contenitori pieni di crocchette di riso e affettano soppressata su taglieri di legno.

Quando scopro che l’annuale picnic dei discendenti di Soveria Mannelli combacia con le date del mio viaggio a Melbourne, mi dico che è quasi un dovere partecipare, come se mi sentissi investito di un obbligo istituzionale. Mossi dal mio entusiasmo accettano di accompagnarmi uno zio di mia madre, Michele Cardamone, che ha lasciato Soveria quando aveva 18 anni, e i miei cugini Adelina Cardamone e Mario Sirianni, nati nell’emisfero australe. “Ciao a tutti; io vengo da Soveria”, dico alle persone che incontro mentre un organetto e un tamburello intonano una tarantella. “Anche noi”, mi rispondono fieri. “Siamo tutti di Soveria”. Sorrido di tenerezza per quel feroce attaccamento al paese natale e mi tocca precisare: “Io vivo proprio lì; sono qui in vacanza”.

Si apre in quel momento per me un vortice temporale di cinque o sei ore – non saprei dirlo con precisione –, in cui vengo risucchiato da storie, ricordi e ricognizioni familiari d’ogni tipo. “Lo conosci mio nipote?”, “Io ho un cugino che abita in piazza Bonini”, “Salutami tanto mia sorella”. Questi sconosciuti diventano, in pochi minuti, come dei familiari e mi presentano a generi, nuore, cognati. Usano parole come ‘qualcheduno’, ‘essa’, ‘fare baruffa’, in un impasto spassoso di inglese, italiano e dialetto calabrese cristallizzato a mezzo secolo fa. Di cognome fanno tutti Chiodo, Sirianni, Cardamone, Marasco; di nome, Michele, Francesco, Vittorio, Tonino, risultato di ciclici omaggi al padre, così che questo viaggio onomastico rischia di essere più lungo di quello in nave che molti di loro hanno compiuto cinquanta o sessanta anni fa. Per fortuna ci vengono in soccorso i soprannomi, i “nicknames” come li chiamano loro, ed è grazie ai Muscalente, Califfo, Bobbu, Minichirandi, che riesco a capire a chi “appartengono” con precisione. Il loro attaccamento a quelle strade e a quelle case abbandonate è enorme, al punto da sconfinare spesso nella mitologia.

Saranno un centinaio i paesani che hanno risposto all’appello della vulcanica Chiarina Pascuzzi, l’organizzatrice del raduno giunto alla sua sesta edizione, una delle poche a essere nata in Australia (da genitori soveritanissimi, s’intende). Toni Chiodo, un’altra cugina che ho scoperto in questo viaggio, offre a tutti dozzine di ‘grispelle’ – piatto simbolo di Soveria – che ha preparato insieme a sua madre Teresa, 97 anni, cugina di mio padre nonché una delle più anziane partecipanti insieme ad Annunziata Cardamone e a qualche altra signora che si avvicina al secolo di vita.

La giornata passa in fretta: chi non si conosceva ora scopre di avere parenti o amici in comune, i cibi vengono assaggiati, i bicchieri levati al cielo, le tarantelle ballate e le foto ricordo scattate, sempre all’ombra della bandiera del Comune che sventola fiera. Quando viene intonata Calabrisella mia mi si stringe la gola per l’emozione, ma quando il signor Michele Pascuzzi, anche detto “Sindaco du Munticiallu” canta una canzone dedicata a Soveria che dice “forse un giorno ritornerò” faccio fatica a trattenere una lacrima.

Un articolo di GAETANO MORACA