ROMA - Con un lungo intervento sul Financial Times, l’ex presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, è ufficialmente sceso in campo contro l’emergenza economica imposta dall’epidemia di coronavirus. “Ci troviamo di fronte a una guerra contro il coronavirus e dobbiamo muoverci di conseguenza”, ha detto Draghi suscitando il tripudio tanto della maggior parte dei media italiani quanto di buona parte della politica, tra cui il leader della Lega Matteo Salvini, che durante il suo intervento di giovedì scorso in Senato ha detto esplicitamente che soltanto “Draghi avrebbe il fisico e le idee per rispondere a Merkel e Macron”.

Anche il senatore a vita ed ex premier Mario Monti, famoso per le sue rigidissime politiche di austerità e per aver introdotto il pilastro centrale dei trattati europei, il vincolo di bilancio, fin nel cuore della Costituzione, ha salutato l’intervento dell’ex presidente della Bce con grande entusiasmo, proponendolo persino come futuro premier: “Ci vuole una personalità fuori dall’agone politico per dirigere uno sforzo comune di questo genere - ha detto Monti -: il nome di Mario Draghi è sicuramente un nome molto eccellente” per guidare un eventuale governo cosiddetto di salute pubblica.

Proposta che è stata subito rilanciata sia dalla Lega che da Matteo Renzi. Eppure, in completa contraddizione con le politiche di austerità europee imposte da Monti stesso, l’ex numero uno di Francoforte ha parlato espressamente di necessità impellente per i Paesi Ue di adottare una “risposta” alla guerra contro il coronavirus che “deve coinvolgere un significativo aumento del debito pubblico” e che “la perdita di reddito del settore privato dovrà essere eventualmente assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci dei governi”. “Livelli di debito pubblico più alti – ha spiegato - diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e sarà accompagnata da una cancellazione del debito privato”. Ma Draghi si spinge persino a dire che “la priorità non deve essere solo offrire un reddito di base a chi perde il lavoro” ma che occorre “proteggere la gente dalla perdita del lavoro”. “Se non lo facciamo – spiega - emergeremo dalla crisi con una permanente occupazione più bassa”, sottolineando che i “livelli di debito pubblico devono salire” se no “l’alternativa sarebbero danni ancora peggiori all’economia”. Quello che occorre oggi, “di fronte a circostanze non previste – insiste Draghi – è un cambio di mentalità”, necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. “Perché – precisa – lo shock che ci troviamo ad affrontare non è ciclico” e “la perdita di reddito non è colpa di chi la soffre”. Infine, mette in guardia le istituzioni europee: “Il costo dell’esitazione potrebbe essere irreversibile”.

Ma questo cambio di mentalità auspicato da Draghi altro non è che un rinnegare quelle che fino dagli anni ‘80 sono state le politiche neoliberiste imposte a tutto il mondo a prezzo di una distruzione sempre più drammatica del welfare pubblico, della sanità e della scuola. Per decenni economisti e banchieri come Draghi e Monti hanno spiegato che il Libero Mercato era l’unico titolato a decidere della vita e della morte delle persone e delle nazioni, l’esempio greco su tutti, e che lo Stato e con esso le Banche centrali dovevano impicciarsi il meno possibile, garantendo al massimo che nessuno potesse turbare l’equilibrio dei mercati.

Oggi, davanti al palese fallimento di queste politiche e alle drammatiche conseguenze che ne derivano, prima di tutto per la tenuta dei sistemi sanitari, ma anche produttivi e sociali, si torna ad implorare lo Stato perché salvi l’economia dalla catastrofe. Che sia l’unica soluzione possibile è chiaro, che non ci sia alternativa anche. Che per portarla a termine debbano essere le stesse personalità e le stesse classi dirigenti che fino a ieri predicavano l’opposto però non avrebbe senso.

Ci vuole “un cambio di mentalità” dice Draghi. Giusto. Forse però questo cambiamento sarebbe meglio non affidarlo a chi, fino a qualche giorno fa, era il paladino dell’attuale sistema.