BUENOS AIRES – L’atmosfera di questi giorni, tra la fine del 2024 e l’inizio di un nuovo anno, ricorda la canzone di Lucio Dalla L’anno che verrà. Disillusione e disincanto da una parte, se non addirittura prospettive tetre. Dall’altra aspettative ottimistiche sulle “mitiche sorti e progressive” che ci aspettano nei prossimi mesi.
I dati dell’Osservatorio del debito sociale dell’Università Cattolica Argentina (Odsa – Uca), osservatorio indipendente sullo stato della società argentina che si occupa di monitorare i livelli di povertà, parlano chiaro. Nel terzo trimestre del 2024 il Paese ha visto un lieve miglioramento interannuale, ma la situazione non smette di essere allarmante. Il tasso di povertà si attesta al 49,9% della popolazione, però in calo rispetto al 51% del secondo trimestre dell’anno.
Allo stesso tempo, il tasso di indigenza, che misura la miseria estrema, è sceso al 12,3%, rispetto al 15,8% dei tre mesi precedenti.
I valori, sebbene in lieve miglioramento, rimangono i più alti dal 2004, segnalando le difficoltà del Paese. Secondo l’Osservatorio, molte famiglie hanno dovuto ridurre spese essenziali, come i medicinali (29,4%), e il 27% circa non ha potuto pagare le bollette.
Particolarmente difficile la situazione abitativa, secondo il raggruppamento Inquilinos Agrupados: il 25% di chi vive in affitto ha dovuto, negli ultimi tre mesi, traslocare (e in molti casi tornare a vivere con i genitori) per l’impossibilità a pagare la mensilità e le spese di condominio.
Si calcola che ogni famiglia con contratto iniziato nel 2024 destini il 44,6% del proprio reddito per pagare l’affitto e le spese. La maggior parte di queste persone ha più di un lavoro, per fare fronte agli impegni economici di sopravvivenza.
Riguardo al 2025, tra gli ottimisti c’è l’economista Pablo Guidotti, viceministro all’Economía tra agosto 1996 e dicembre 1999 e attuale docente della Scuola di Governo dell’Università Di Tella.
“La valutazione sull’economia, dopo un anno di governo, è positiva – dice Guidotti –. La situazione ereditata era molto complicata ed era inevitabile, all’inizio, un rimbalzo della povertà e una caduta del salario. Ma per il 2025 è previsto un aumento del Pil del 5 per cento”.
Guidotti, Chicago Boy di formazione, non poteva che appoggiare la decisione del governo di eliminare il deficit fiscale e arrivare al pareggio di bilanco, anche se in modo estremamente brutale e doloroso.
“L’Argentina doveva recuperare la sua bassa credibilità internazionale – continua –. Si trattava di mettere ordine nella spesa pubblica. C’erano settori che ricevevano finanziamenti senza controllo. Durante il kirchnerismo la spesa pubblica è aumentata dal 20 per cento al 40 per cento del Pil, ma senza efficienza”.
I tagli sono stati brutali, si temeva una reazione popolare che di fatto non c’è stata e il governo sta mantenendo un elevato consenso. La sua immagine ha raggiunto il suo livello più elevato di popolarità a ottobre scorso (58,6 per cento), per scendere a novembre al 52,5 per cento.
“Nessuno se lo sarebbe mai immaginato – continua Guidotti –. La Libertad Avanza, il partito di Milei, ha pochi seggi in Parlamento, ma il governo ha potuto ugualmente fare approvare la Ley de Bases e sostenere i veti presidenziali agli aumenti di budget alle università e alle pensioni”.
Il segnale di un cambiamento di mentalità rispetto all’assistenzialismo emerge, in modo totalmente controintuitivo, anche da alcune ricerche. Come quella di Ayelén Vanegas (Università del North Carolina a Chapel Hill), secondo cui gli stessi beneficiari dei piani sociali ritirano il loro appoggio alla politica dei sussidi, quando la povertà è in aumento, perché percepiscono che non serva allo sviluppo economico e non sia sostenibile nel lungo termine.
“Ma attenzione, non chiedono tagli alla spesa pubblica – spiega Vanegas –. Al contrario, reclamano politiche più profonde e durature rispetti ai trasferimenti alle famiglie, visti come provvedimenti d’emergenza: chiedono investimenti in capitale umano ed educazione, per trovare lavoro stabile nel settore privato”.
Secondo Guidotti, la maggiore credibilità che si è guadagnata l’Argentina e la riduzione del deficit creeranno un circolo virtuoso, facendo diminuire ulteriormente il rischio Paese e l’emissione monetaria. E di conseguenza l’inflazione, già in calo nel 2024. A novembre l’aumento su base mensile è stato del 2,4%: ancora alto, ma 10 volte inferiore a quello dello stesso periodo del 2023.
Questo dovrebbe tradursi in creazione di nuovi posti di lavoro e un aumento del potere d’acquisto dei salari. Ma non tutti sono d’accordo.
Secondo gli indicatori dell’Indec, l’istituto nazionale di statistica, nel terzo trimestre 2024 sono cresciuti i disoccupati (2,6% su base annua) mentre, tra le persone professionalmente attive, sono aumentati soltanto gli autonomi. Il Pil si è contratto del 2,1 per cento (sempre su base annua), mentre il salario reale (ossia il potere d’acquisto), grazie al rallentamento dell’inflazione, è aumentato del 3,1 per cento rispetto al trimestre precedente.
Il centro studi indipendente Idesa contesta l’idea che un recupero del Pil nel 2025, e quindi della produzione, si tradurrà automaticamente in una risalita dell’occupazione.
Al contrario, sostiene Idesa in uno dei suoi report settimanali, la diminuzione dell’inflazione e il miglioramento dei salari reali potrebbe, come effetto paradosso, deprimere la ripresa occupazionale. Una situazione che sarebbe essere ulteriormente aggravata dal basso valore di cambio del peso (una volta lasciato libero di fluttuare) e dall’importazione di tecnologia a basso costo.
L’elasticità occupazione-Pil allo 0,7 per cento, prevista da molti economisti (ossia per ogni aumento di punto percentuale di Pil un aumento dell’occupazione dello 0,7 per cento), potrebbe così risultare, alla prova dei fatti, molto inferiore.
La ricetta proposta da Idesa è una riforma del mercato del lavoro che preveda una deregolamentazione ancora più spinta di quanto già fatto dal governo di Milei (limitazioni delle indennizzazioni per licenziamento senza giusta causa ed estensione del periodo di prova) nel 2024.
È essenziale, si legge nel report, dare “la precedenza all’accordo individuale e aziendale rispetto alla contrattazione collettiva del sindacato centrale. Questo implica che la segreteria del Lavoro consenta alle imprese di svincolarsi dal contratto collettivo di categoria, per negoziare con i propri lavoratori condizioni lavorative specifiche. In questo modo, le imprese potranno espandere la propria produzione aumentando simultaneamente sia l’occupazione sia i salari”.
Poco convinti rispetto alle proiezioni economiche più ottimistiche sono i rappresentanti delle Pyme (piccole e medie imprese).
“La recessione ha avuto un impatto più forte sul settore manifatturiero, soprattutto nel terzo trimestre del 2024 – dice Federico Poli, direttore esecutivo dell’Osservatorio Pymes – Le imprese del settore software e informatica hanno mostrato maggior dinamismo”. Nel periodo in esame, queste ultime hanno registrato un 11 per cento di aumento delle vendite e un 3 per cento di crescita occupazionale.
Le previsioni per il 2025 accendono una luce gialla sul settore. “Nel 2024 non sono nate nuove imprese” aggiunge Poli.
E non è l’unico motivo di preoccupazione. “Assistiamo a un ritardo dei prezzi relativi rispetto ai costi di produzione, con conseguenze sulla redditività – continua Poli –. La situazione convive con la perdita del potere d’acquisto dei salari: mentre aumenta il costo salariale per le imprese manifatturiere, i salari reali crescono meno dei prezzi al consumo”.
A generare preoccupazione è anche la questione del cambio ufficiale peso-dollaro, con la moneta argentina ancora troppo valutata, che non aiuta le esportazioni. “Si prevede poi, a lungo termine, un aumento delle importazioni dovuto all’eliminazione dell’imposta-Paese” spiega Poli, facendo riferimento a una tassa sui prodotti importati, introdotta a suo tempo per sostenere l’industria nazionale ed eliminata dal governo Milei.
“Come Pyme – sottolinea – avremmo voluto mantenere l’imposta-Paese senza svalutare il peso, perché anche questo provvedimento avrebbe avuto un impatto negativo sul mercato interno. Pensiamo che l’export poteva essere incentivato eliminando o riducendo le trattenute sulle esportazioni”.
Resta l’incertezza e il mancato accesso al credito che, per aziende di piccole e medie dimensioni, pesa come un macigno sulle possibilità di crescita.
La sensazione che aleggia tra le Pyme, insomma, è di un governo che ha favorito solo i grandi gruppi multinazionali attraverso misure come il RIGI (Regime di incentivo per grandi investitori), per attrarre progetti da oltre 200 milioni di dollari (soprattutto di capitale straniero) in cambio di incentivi fiscali, doganali e cambiari per un periodo di 30 anni.
Si tratta di un provvedimento, previsto dal megadecreto della Ley de Bases, “che per il settore energetico e minerario farà entrare tra 50mila e 80mila milioni di dollari”, afferma Pablo Guidotti.
Poco importa, per l’economista, il fatto che questi investimenti riguardino appunto il settore minerario ed energetico, per il quale – sostengono i critici del provvedimento – l’Argentina è un mercato talmente appetitoso che i soldi sarebbero entrati comunque, sotto forma di investimenti diretti, senza bisogno di “svendere i gioielli di famiglia” con detrazioni e vantaggi fiscali. “E allora perché questi capitali finora non si erano mai visti prima?” ribatte ironicamente l’economista.
Le critiche non finiscono qui e arrivano dal Cepa (Centro economía política argentina), altro centro studi indipendente. “Il Rigi determina anche una perdita di sovranità – spiega il direttore, l’economista Hernán Letcher –. Qualsiasi controversia tra Stato e gruppi industriali sarà risolta attraverso il Ciadi”. Cioè un centro di arbitraggio internazionale che fa capo alla Banca Mondiale.
“Il Rigi ha come principale obiettivo concedere benefici economici ai grandi gruppi – continua Letcher – in cambio di dollari freschi”. Di cui l’Argentina, si sa, ha un enorme bisogno.
“Molti dei progetti presentati al Rigi erano già nella ‘carpetta’ delle imprese investitrici, che alla fine hanno ottenuto molti più benefici di quanto loro stesse avrebbero chiesto” osserva Lechter.
E dal punto di vista occupazionale? “Il Rigi riguarda soprattutto attività estrattive, senza creazione di catene di valore di filiera e senza creazione di posti di lavoro di qualità”, afferma l’economista. Le attività incluse nel regime ricoprono appena il 6 per cento dei posti di lavoro a bassa crescita del settore privato negli ultimi 15 anni. Mentre l’industria manifatturiera, che si sente messa a rischio dal Rigi, rappresenta il 19 per cento dei posti di lavoro.
Inoltre, più della metà dei progetti entrati al Rigi proviene dall’impresa petrolifera statale YPF e riguarda i giacimenti di Vaca Muerta, già ampiamente sfruttati e dotati di infrastrutture. Secondo il Cepa, insomma, il piano economico di Milei ha una vocazione fortemente anti industriale che favorisce (dalla grande distribuzione alla produzione di yerba mate) i gruppi che meno avrebbero bisogno dell’appoggio dello Stato.
“Nel primo anno sono state applicate politiche economiche regressive – conclude Letcher – con seri dubbi sulla sostenibilità delle correzioni macroeconomiche realizzate e un processo di deindustrializzazione e prosciugamento dell’apparato produttivo e scientifico-tecnologico nazionale”.