BUENOS AIRES – Come si costruisce un complesso immobiliare senza un architetto o un ingegnere? Come si vendono gli appartamenti senza un notaio che svolga le relative pratiche legali? Chi potrebbe occuparsi della parte contabile, se non un commercialista? Come si potrebbe presentare il progetto senza specialisti in design e comunicazione?

L’Argentina è il Paese con il maggior numero di premi Nobel in America Latina: due per la pace, Carlos Saavedra Lamas (1878-1959) e Adolfo Pérez Esquivel (nato nel 1931), e tre in campo scientifico.

Bernardo Alberto Houssay (1887-1971) è stato premiato per le sue scoperte sul ruolo degli ormoni ipofisari nella regolazione dei livelli di zucchero nel sangue. Uno dei suoi discepoli, Luis Federico Leloir (1906-1987), ha ricevuto il Nobel per la Chimica nel 1970 per le  ricerche sui nucleotidi dello zucchero e sul loro ruolo nella formazione dei carboidrati. Ha contribuito alla comprensione di come il cibo viene convertito in glucosio, che fornisce energia essenziale alla vita. Nel 1984, César Milstein (1927-2002) ha ricevuto il Nobel per la Medicina. Ha studiato il modo in cui il sangue produce gli anticorpi, consentendo lo sviluppo di nuovi metodi diagnostici e terapeutici.

Cos’hanno in comune queste persone? Tutte hanno studiato all’università pubblica. A questo punto non ci sono più domande, ma certezze: l’importanza di un’istruzione pubblica gratuita e di qualità è fondamentale nella formazione di professionisti, nella produzione di conoscenze e nella loro traduzione in progetti concreti.

Eppure oggi, in Argentina, “l’università pubblica e l’istruzione pubblica sono in pericolo – afferma Tatiana Fernández Martí, segretaria generale del centro studentesco della facoltà di Filosofia e Lettere dell’Università di Buenos Aires (UBA) –. Il governo prevede un budget di 3,5 miliardi di pesos quando il consiglio interuniversitario ha confermato che per far funzionare tutte le facoltà delle 57 università del Paese è necessario stanziare un budget di 7 miliardi di pesos”.

E aggiunge: “Il budget che il presidente Javier Milei, il ministro dell’Economia Luis Caputo e la ministra del Capitale Umano Sandra Petovello vogliono stanziare implica di fatto la chiusura di varie facoltà nel Paese”.

Alhue Retamar, la presidente del centro studentesco dell’Università Nazionale delle Arti (UNA), è dello stesso parere: per lei le università sono “completamente a rischio” e la gestione di Milei “non è compatibile con l’istruzione”. Da quando il presidente si è insediato, nel dicembre dello scorso anno, “ha attaccato a testa bassa e non c’è alcuna prospettiva di miglioramento”.

Le misure adottate dal governo “si ripercuotono sugli studenti: le aule sono sempre più vuote – afferma Alhue –. È più difficile restare in corso, pagare libri e dispense, i mezzi pubblici e tutto quello che implica frequentare le lezioni. E anche gli insegnanti abbandonano a causa dei bassi stipendi”.

Poche settimane fa, il Congresso argentino aveva approvato una legge sul finanziamento delle università. La riforma, che prevedeva miglioramenti salariali e nuovi investimenti, aveva l’obiettivo alleviare l’impatto dell’aumento dei prezzi di beni e servizi.

Proponeva un aggiornamento del bilancio 2023 (al quale Milei non ha provveduto quest’anno) in linea con l’inflazione accumulata, che aveva raggiunto il 211,4 per cento al momento della presentazione della legge. Inoltre prevedeva un aggiornamento progressivo bimestrale in base all’andamento dell’inflazione.

Il presidente ha deciso di porre il veto alla legge: era incompatibile, a suo dire, con la politica di riduzione della spesa pubblica che è l’unico comandamento del suo governo.

La Costituzione argentina lascia al Congresso la decisione ultima se accettare o meno il veto. Risultato: 160 voti contro il veto, sei in meno dei due terzi dei seggi, la maggioranza qualificata necessari a sostenere la legge. Che così è stata respinta, come richiesto dal governo.

L’esecutivo non dispone di una solida maggioranza parlamentare ma, sulla base di accordi e scambi, è riuscito a raggiungere il suo obiettivo. Otto parlamentari assenti hanno modificato la soglia della maggioranza e i deputati del Pro, legati all’ex presidente Mauricio Macri, hanno contribuito a raggiungere i voti necessari a confermare del veto. Ha collaborato anche una parte minoritaria del Partido Justicialista (PJ), legato al peronismo, duramente criticato dall’ex presidente Cristina Fernández de Kirchner.

La decisione finale del Congresso è stata preceduta dall’occupazione da parte degli studenti di alcune facoltà, al grido di “Se c’è un veto, c’è un’occupazione”, a partire da lunedì 7 ottobre. 

L’obiettivo, non raggiunto, era “generare pressione” sull’esecutivo due giorni prima della votazione parlamentare. Intanto il governo definiva accordi con i legislatori per ottenere l’approvazione del provvedimento.

Le azioni degli studenti sono culminate in una grande manifestazione davanti al Parlamento, proprio nelle ore in cui deputati e senatori discutevano e votavano.

Il conflitto con le università, tuttavia, va avanti da diversi mesi: il 23 aprile scorso c’è stata un’altra manifestazione studentesca per chiedere un aumento del budget e i docenti hanno scioperato in più occasiono. Nelle ultime due settimane sono state proclamate occupazioni in diverse facoltà di tutto il Paese e attualmente sono oltre 60 le istituzioni coinvolte.

Nonostante le proteste “il governo è andato avanti – dice Alhue –. Per cui non ci resta altro che passare a misure di lotta più radicali, come le occupazioni”.

In questo contesto, tuttavia, i docenti continuano a insegnare, spesso sotto forma di lezioni pubbliche: spostano le lavagne dalle aule e si trasferiscono con gli alunni nei corridoi o altri luoghi più transitati dell’edificio, a volte anche per strada.

“In questo modo, la lotta dell’università diventa visibile” spiega Florencia Sarmiento, presidente del centro studentesco della facoltà di Scienza e Tecnologia dell’Università Nazionale di San Martín (UNSAM).

“Tra studenti, insegnanti e i diversi sindacati, c’è un dialogo costante – dice Tatiana –. È così che abbiamo organizzato le lezioni pubbliche e sempre più insegnanti vi aderiscono. Il coordinamento di noi studenti con il personale docente e non docente ci sembra fondamentale, perché facciamo tutti parte della stessa lotta”.

Martedì scorso, dopo un’assemblea tra insegnanti, dirigenti e studenti, sono state decise nuove misure per rendere visibili le richieste e coordinare un “piano di lotta” a livello nazionale.

Una delle manifestazioni a favore dell’istruzione pubblica. (Foto: ANSA)

Tra le misure stabilite, due nuovi scioperi degli professori, che si svolgeranno lunedì e martedì della prossima settimana. Sono previste anche marce in cinque province, con l’obiettivo di fare uscire la protesta dall’ambito della capitale. Sebbene i luoghi non siano ancora stati definiti, le manifestazioni potrebbero svolgersi a Salta, Córdoba, Tucumán, Mar del Plata (nella provincia di Buenos Aires) e in una città ancora da stabilire nel Sud dell’Argentina.

Si sta valutando se organizzare un’altra manifestazione nella capitale, con la partecipazione di delegazioni da tutto il Paese. 

Ogni mercoledì, a partire da mezzogiorno, si terranno lezioni pubbliche in tutte le università argentine, dedicate al dibattito sulla legge di bilancio 2025, in corso al Parlamento.

Attualmente si chiede il recupero dei 3,4 miliardi di pesos che il governo ha tagliato per il prossimo anno, importo che la comunità educativa ritiene necessario oper garantire il funzionamento delle istituzioni.

Inoltre, due giorni fa a Buenos Aires fa è stata organizzata una fiaccolata “per il dialogo e la non violenza”, da Plaza Houssay (dover si trovano diverse facoltà della UBA) fino al Palazzo Pizzurno (sede della segreteria per l’Educazione). La marcia è stata una risposta alle aggressioni con spray al peperoncino effettuate da un gruppo di militanti de La libertad avanza (LLA), il partito di Milei, contro gli studenti dell’Università Nazionale di Quilmes (Buenos Aires).

Su una cosa i giovani universitari concordano: il movimento studentesco ha la forza e il senso di responsabilità necessari per convincere il governo ad accettare le richieste. “Dobbiamo rendere visibile ciò che sta accadendo” dice Alhue.

“L’occupazione non è fine a se stessa, ma fa parte di un piano di lotta – dice Florencia –. Conosciamo le possibili conseguenze dei tagli al bilancio: le università cercheranno finanziamenti privati”.

Per la leader studentesca, “c’è sotto un business da milioni di dollari dove, attraverso accordi con aziende e finanziamenti privati, si perderebbe l’autonomia dell’università pubblica, che avrà bisogno di sponsor per sopravvivere. E si ritroverà subordinata a queste aziende, alla loro volontà rispetto ai programmi di studio”. E alla ricerca. Basta pensare cosa potrebbe avvenire in campo medico e farmaceutico, dove gli studi sarebbero indirizzati verso aree remunerative, trascurando le malattie orfane e meno “di moda”.

Pochi giorni fa, Milei ha sostenuto che mantenere le università pubbliche “serve solo ai figli dei ricchi e della classe medio-alta” e i costi di tale gestione sono pagati dai più poveri.

Tatiana, dati alla mano, controbatte questa argomentazione: “La maggior parte degli studenti sono anche lavoratori. Se le loro famiglie li aiutano, lo fanno a suon di sacrifici”. Si tratta della maggior parte di genitori di estrazione proletaria che vogliono che i loro figli siano i primi laureati della famiglia”.

Lo stesso desiderio che avevano gli immigrati italiani di inizio ‘900, spesso analfabeti, che sognavano “il figlio dottore”, come nella famosa opera teatrale di Florencio Sánchez. E realizzavano il sogno proprio grazie all’educazione pubblica e gratuita che l’Argentina offriva a tutti.

Secondo Milei, l’università pubblica sta solo al servizio dei giovani di classe medio-alta.

“Crediamo di avere il compito, come generazione, di lottare duramente per difendere l’università pubblica – aggiunge Tatiana –. È un mandato che abbiamo ereditato da un’importante tradizione di lotta, che risale alla riforma universitaria del 1918. E trova una sua continuità nel Cordobazo del 1969, quando scesero in piazza insieme studenti e operai, negli scioperi studenteschi degli anni ‘90 contro le privatizzazioni dell’epoca di Menem e successivamente contro i tagli al bilancio dell’istruzione durante il governo di Fernando De la Rúa. Siamo gli eredi di quelle lotte e siamo disposti a difendere l’università pubblica fino alla fine”.