Di cambiare la data della giornata nazionale ormai si parla da anni, ma l’alternativa che metta tutti d’accordo non c’è. La via d’uscita sarà la repubblica - dato che per la nascita della Federazione, che sarebbe più appropriato dello sbarco a Sydney del 1788, si è scelto il primo di gennaio e nessuno vuole perdere una giornata festiva extra o sminuire l’occasione -, ma dopo la bocciatura referendaria della Voce, l’obiettivo, che sembrava un po’ più vicino grazie alla promessa del rilancio del dibattito repubblicano di Anthony Albanese durante la campagna elettorale del 2022, si è nuovamente allontanato e, probabilmente, di parecchi anni.

E così si continua e continuerà ad andare avanti divisi tra celebrazioni e polemiche per un ‘compleanno’ della nazione sempre più contestato.

Non si tratta più di chi ha ragione e di chi ha torto: troppe indecisioni, troppi sensi di colpa, troppa confusione e, soprattutto, troppi nuovi giocatori che scendono in campo, senza essere stati invitati ad avere un ruolo, pronti a rovinare una festa che, ora più che mai, è diventata solo un’occasione per una giornata libera per andare al mare o organizzare qualche bbq con famiglia e amici. Quest’anno a rendere lo stato confusionale su significato, valori, motivi per celebrare ancora più evidente ci hanno pensato Woolworths (che ieri ha dato vita, con intere pagine di pubblicità sui quotidiani e interviste varie, ad un imbarazzante tentativo di aggiustare il tiro), BigW, Kmart (recidivo), Aldi, Tab, St Vincent, Tennis Australia, Cricket Australia (altri che stanno tentando di riposizionarsi) oltre ai soliti noti: i Comuni, sempre più politicizzati e coinvolti in dibattiti che forse farebbero meglio ad ignorare, concentrandosi sulle cose da fare per soddisfare le esigenze dei cittadini. Invece la loro propensione ad interessarsi di come si dovrebbe o non dovrebbe celebrare il Natale, dell’infinito tragico scontro tra Israele e i palestinesi (sembrano un po’ meno motivati sul fronte della guerra tra Russia e Ucraina), di proposte di cambiamenti costituzionali, di diritti di minoranze varie, di bandiere da sventolare o ammainare, è più regolare che mai. 

 Il fatto che Woolworths o altre catene commerciali decidano di vendere o non vendere bandiere, cappellini ecc., tra l’altro per lo più ‘made in China’, in occasione dell’Australia Day è una scelta legittima, dopotutto è un loro diritto decidere cosa offrire alla loro clientela, le spiegazioni della scelta però qualche perplessità la sollevano, perché quando si comincia a parlare del fatto che ‘la data del 26 gennaio ha diversi significati all’interno della comunità’ e per questo non intendono prenderne parte (solo ieri una pasticciata marcia indietro al riguardo), di fatto, si prende già una posizione in merito, che si poteva tranquillamente evitare, come del resto il susseguente invito al boicottaggio che è arrivato da Peter Dutton per cercare di guadagnare qualche punto-popolarità.  

Totalmente da condannare poi la scelta di Tennis Australia e di Cricket Australia di evitare qualsiasi riferimento all’Australia Day, domani, quando sui campi di Melbourne si continuerà a giocare gli Australian Open e la nazionale verdeoro giocherà a Brisbane contro la rappresentativa delle West Indies. Probabilmente alla fine cederanno anche loro e qualche bandiera in più ai due eventi ci sarà e in qualche annuncio trapelerà ‘l’inconveniente verità’ che il 26 gennaio qualcosa di giusto o sbagliato si celebra qui in Australia.  

Che la data scelta per festeggiare la nazione sia discutibile è fuori dubbio: segna infatti lo sbarco del capitano Arthur Phillip a Sydney, con l’aggravante, sostenuta da alcuni storici, dell’errore perchè la famosa Prima Flotta, di fatto, sarebbe arrivata il 18 gennaio a Botany Bay e, se si vuole proprio insistere, l’Australia ‘europea’ che si celebra il 26 gennaio, sarebbe veramente nata col giuramento in veste di governatore dello stesso Phillip il 13 febbraio.

La contestazione di una parte della popolazione aborigena, parte da lontano, dal 1938 per l’esattezza, da quando cioè il leader indigeno William Cooper ha creato la ‘Giornata del cordoglio’ che nel 1988 è stata trasformata nel ‘Giorno dell’invasione’. Una protesta cresciuta particolarmente negli ultimi anni quando la politica ha fatto breccia e di cambiamento della data si è cominciato a parlare anche a Canberra con i verdi apertamente schierati in favore, laburisti tormentati dalle solite correnti e Coalizione che difende a spada tratta lo status quo. 

Una festa nazionale, tra l’altro, che fino all’iniziativa partita dal premier del New South Wales Nick Greiner (liberale), sostenuta dal primo ministro (laburista) Bob Hawke, nel 1990, era stata sempre un po’ fluttuante, con variazioni tra Stato e Stato, spesso spostata per comodità al lunedì dopo il 26 gennaio, senza l’uniformità nazionale che ha oggi. Meno evidente quindi il simbolismo e sicuramente molto meno sentite le contestazioni. Ieri come oggi, comunque, la maggioranza degli australiani vogliono continuare ad avere l’Australia Day. Per qualcuno è un’occasione per celebrare, per qualche altro un’opportunità per dimostrare, attraverso la protesta, il disappunto per la festa dell’Australia europea, ma a tutti non dispiace avere una giornata a disposizione per poterlo fare. 

La verità è che da festeggiare, e questo vale anche per la popolazione indigena, qualcosa c’è: dopotutto stiamo parlando di una nazione che rimane tutto sommato un’isola felice in un mondo sempre più complicato, anche se l’idea del ‘lucky Country’ nell’immaginario nazionale ed internazionale sta perdendo un po’ di smalto. Un po’ perché l’invidiata tenuta economica che le ha permesso di potersi vantare di più di un quarto di secolo di ininterrotta crescita sta mostrando qualche preoccupante incrinatura, ma soprattutto perché si comincia a registrare anche ‘down under’ qualche turbolenza sociale a cui non si era abituati, alimentata da una ‘correttezza politica’ che talvolta supera davvero i limiti di guardia e sopportazione.

L’Australia rimane comunque una nazione ancora giovane in cui è, dopotutto, facile adagiarsi in un diffuso benessere e godersi una certa tranquillità generale, più evidenti che mai rispetto ad altre difficili realtà del pianeta, vicine e lontane. Un’Australia che rimane ricca e un po’ pigra e sonnolenta, ancora alla ricerca di una chiara identità e un’anima, che sta cercando di fare anche qualche conto con il suo passato. Per questo il tormento del festeggiare ma non troppo, del senso di gratitudine e di colpa che fa da sfondo anche a questo duecentotrentaseiesimo compleanno.