ROMA - È stata Giorgia Meloni in persona ad annunciare, tramite un video sui suoi canali social, di essere indagata per favoreggiamento e peculato in merito alla vicenda del comandante libico Najeem Osema Almasri Habish, rimpatriato la scorsa settimana a Tripoli. Insieme a Meloni hanno ricevuto un avviso di garanzia anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio, quello dell’Interno, Matteo Piantedosi, e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai Servizi di informazione e sicurezza, Alfredo Mantovano.
Almasri, su cui pendeva un’accusa della Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja per crimini contro l’umanità, era stato arrestato a Torino, ma subito dopo rilasciato e riportato in Libia con un aereo di Stato dei servizi, una gestione che ha indotto l’avvocato Luigi Li Gotti a presentare, il 23 gennaio scorso, un esposto alla Procura di Roma, ipotizzano i reati di favoreggiamento e peculato. Nella denuncia Li Gotti ha chiesto ai Pm di svolgere “indagini sulle decisioni adottate e favoreggiatrici di Almasri, nonché sulla decisione di utilizzare un aereo di Stato per prelevare il catturato (e liberato) a Torino e condurlo in Libia”. Il penalista ha denunciato la Premier e i ministri in relazione “alla liberazione di Osama Almasri, catturato su mandato della Corte penale internazionale, con l’accusa di tortura, assassinio, violenza sessuale, minaccia, lavori forzati, lesioni in danno di un numero imprecisato di vittime detenute in centri di detenzione libiche”.
La comunicazione dell’iscrizione nel registro degli indagati è stata firmata dal procuratore Francesco Lo Voi, procuratore capo di Roma, “quello del fallimentare processo” contro Matteo Salvini, su denuncia di Li Gotti, “molto vicino a Romano Prodi” e conosciuto “per avere difeso pentiti del calibro di Buscetta, Brusca e altri mafiosi”, come ha ricordato la Premier prima di ribadire di non essere ricattabile e che non si lascerà intimidire dalla magistratura. Meloni ha inoltre sottolineato come la scarcerazione di Almasri sia stata disposta dai magistrati, sebbene abbia puntato il dito anche contro la Cpi che “curiosamente, dopo mesi di riflessione”, avrebbe emesso il mandato di cattura nei confronti del capo della Polizia giudiziaria di Tripoli “proprio mentre stava per entrare in Italia, dopo che per 12 giorni aveva serenamente soggiornato in altri tre Stati europei”.
Come prevedibile, la questione ha scatenato una bufera politica con la maggioranza che si è stretta compatta intorno al capo di governo e ai ministri coinvolti. “L’opposizione giudiziaria è il maggior ostacolo politico di questo governo”, ha tuonato il ministro della Difesa Guido Crosetto, mentre il viceministro Francesco Paolo Sisto ha dichiarato che il governo ora si aspetta un’“archiviazione immediata” che potrebbe dimostrare che “non c’è una magistratura che va oltre l’adempimento dei suoi doveri”.
A poco è valsa la precisazione dell’Associazione nazionale magistrati, che ha parlato di “atto dovuto” da parte della Procura di Roma, di una “comunicazione di iscrizione” come previsto dalla legge che “dispone, omessa ogni indagine, di trasmettere gli atti e di darne immediata comunicazione” agli interessati per difendersi. Anche Li Gotti, intervistato dall’Ansa, ha sottolineato di aver “fatto una denuncia ipotizzando dei reati e ora, come atto dovuto, non è certo un fatto anomalo, la Procura di Roma ha iscritto nel registro la Premier e i ministri”. “Ora la Procura dovrà fare le sue valutazioni e decidere come proseguire, se individuare altre fattispecie o inviare tutto al Tribunale dei ministri. Io mi sono limitato a presentare una denuncia”.
Il centrodestra ha invece bollato l’intera questione come una “ripicca” per il disegno di legge sulla separazione delle carriere che, dopo una prima approvazione alla Camera, proprio in queste ore dovrebbe riprendere il suo cammino in Senato. Una riforma che, come dicono quasi all’unisono Antonio Tajani e Matteo Salvini, non si fermerà alla luce di una “giustizia a orologeria”, come l’ha definita Barbara Berlusconi intervenendo sull’argomento.
“Sono dalla parte di Giorgia Meloni, Matteo Piantedosi, di Nordio e di Mantovano. Difendo la separazione dei poteri e condanno scelte che suonano come una ripicca per la riforma della giustizia”, ha commentato tagliente anche il leader di FI e vicepremier Antonio Tajani. Alla sua voce ha fatto eco quella dell’altro vice, Matteo Salvini: “Vergogna, vergogna, vergogna. Lo stesso procuratore che mi accusò a Palermo ora ci riprova a Roma con il governo di centrodestra. Riforma della Giustizia, subito!”, ha invocato sui suoi canali social.
Come prevedibile, di tutt’altro avviso gli avversari politici di Meloni, con Schlein che invita la Premier a presentarsi immediatamente in Aula “per chiarire al Paese per quale motivo il governo ha scelto di riaccompagnare a casa un torturatore libico per il quale la Corte penale internazionale aveva spiccato un mandato di arresto”. Con la leader del Pd si è schierato anche Matteo Renzi, che già all’indomani del rimpatrio di Almasri aveva definito la scelta del governo una “follia” e un “errore clamoroso”. “Non tocca a me giudicare e sono sinceramente garantista - ha assicurato il presidente di Italia Viva -. Quindi non faremo a Giorgia Meloni quello che lei ha fatto a noi e alle nostre famiglie. Per noi la presidente del Consiglio è innocente come chiunque è innocente fino a sentenza passata in giudicato. Noi non attacchiamo sul piano giudiziario: noi facciamo politica”.
“Su Almasri il governo italiano ha combinato un disastro, raccontando un mare di balle agli italiani – ha commentato Calenda -. Dopodiché, che un presidente del Consiglio venga indagato per un atto che risponde evidentemente a una ‘ragione di Stato’, mai ammessa, è surreale e non accadrebbe in nessun altro Paese occidentale. Si saldano così due errori e si riacutizza lo scontro tra poteri dello Stato. Non un bello spettacolo”.