AGRIGENTO - Nella Cattedrale agrigentina, è stato proclamato beato il giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990. Sarà stato anche un giudice ragazzino, come qualcuno lo qualificò non esattamente per fargli un complimento, ma venne ammazzato in odio alla fede come accaduto a tanti padri della Chiesa. E anche a tanti ragazzini, perché il martirologio è pieno di figure di giovani e giovanissimi; tutti troppo ragazzi per morire.
Le date, poi, la Chiesa difficilmente le sceglie a caso, e il 9 maggio era anche il giorno di un altro evento nella valle dei templi del capoluogo siciliano: nel 1993, in quel luogo e in quel caldo, Giovanni Paolo II lanciava una delle sue invettive più dure e più famose. Quella contro i mafiosi. “Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio - esclamò -. Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio”.
A dare mandato per l’esecuzione di Livatino furono i i gruppi mafiosi di Palma di Montechiaro e Canicattì a colpire il servo di Dio, si legge nel documento che ha annunciato la decisione di papa Francesco. La causa, sta scritto nel decreto di beatificazione, va cercata nella “sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede”. Insomma, vero cristiano e vero cittadino, l’una cosa inscindibile dalla seconda.
Per esserlo, poi, Livatino non dovette nemmeno percorrere cento passi: durante il processo penale si seppe che il capo provinciale di Cosa Nostra Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso stabile, lo definiva con spregio “santocchio” per la sua frequentazione della Chiesa.
“Dai persecutori”, proseguono i documenti ecclesiastici, “era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante”. Un terzo elemento particolarmente caro a Bergoglio: il rifiuto della corruzione.