Avrebbe compiuto 80 da pochi giorni il più internazionale degli autori italiani, l’unico ad aver vinto un Oscar per la migliore regia in un palmarès affollato che in quel 1988, grazie a “L’ultimo imperatore”, lo portò a vincere ben nove statuette (un record completato in chiave personale dall’Oscar per la migliore sceneggiatura). 

Ma nella sua casa romana spiccavano anche i Golden Globes, i premi alla carriera della Mostra di Venezia e dell’Academy di Los Angeles, il Pardo d’onore a Locarno e un diluvio di riconoscimenti nazionali, tra David di Donatello, Nastri d’Argento e Ciak d’oro.
Insomma una strada lastricata di successi (la sua stella brilla oggi sulla Walk of Fame di Los Angeles) che sulla scena nazionale comincia addirittura con l’opera prima (“La commare secca”, 1962) e sul palcoscenico mondiale con la nomination all’Oscar per “Il conformista” (1970). 

Avrebbe da poco compiuto 80 anni se la malattia non si fosse accanita su di lui, prima per un invalidante intervento alla schiena e poi per un tumore incurabile che lo avrebbe portato via il 26 novembre del 2018. 

Quattro anni prima la sua città natale, Parma, gli regalava la soddisfazione forse segretamente più ambita: la laurea honoris causa in Storia e critica delle arti dello spettacolo. In ermellino rosso e tocco d’ordinanza, con il suo abituale sorriso sornione e gioiosamente ironico, Bertolucci salì in cattedra per una memorabile “lectio magistralis” che ripercorreva tutte le tappe della sua vita artistica, cominciando dall’infanzia e dal magistero del padre poeta, Attilio, per poi proseguire in un viaggio da eterno adolescente, con gli occhi sgranati di fronte al “mistero del cinema”. 

Così si intitola infatti il bel libro che, grazie alla passione della moglie Claire Peploe, riproduce quella magica lezione, un esercizio di sincerità, memoria, poesia e tecnica che attraversa con sguardo lucido tutta la sua opera. 

Quel giorno, come ricorda Michele Guerra che ha curato il volume dopo aver consegnato il diploma in cattedra il 16 dicembre 2014, fu per Bertolucci un vero “ritorno a casa”, venato di emozione e di ricordi, quasi a marcare la vera caratteristica che connota il suo successo: portare la sua terra negli angoli più remoti del mondo, dalla Cina al Tibet, dal Sahara a Parigi, senza mai rimuovere le sue radici, straordinariamente evidenti nel poema più ambizioso, il dittico di “Novecento”. 

Bernardo Bertolucci è stato prima di tutto un poeta, anche se l’impronta paterna si rivela soltanto in un’antologia adolescenziale, “In cerca del mistero”, pubblicata nel 1962 e premiata come opera prima al Viareggio. Lo è stato nella sua visione quasi fanciullesca del cinema come lanterna magica dell’inconscio, luogo delle ombre e dell’ambiguità in cui l’uomo si perde alla ricerca di se stesso mentre la società intorno si trasforma e tutto travolge. 

Lo è stato nel lasciare l’università per inseguire un altro poeta, Pier Paolo Pasolini, eletto a maestro e accompagnato nella scoperta del “mestiere” cinematografico sul set di “Accattone” in cui debuttarono entrambi, l’uno come regista e lui come apprendista. 

Lo è stato infine nel suo viaggiare per il mondo alla ricerca, quasi come il “fanciullino” di Giovanni Pascoli, di un “io” segreto che teneva dentro e che proiettò nell’imperatore bambino del suo kolossal, nel Buddha reincarnato del film tibetano e, forse meglio di tutto, nei due amici bambini, costretti poi a crescere come l’Italia attraverso il fascismo, di “Novecento”. 

A ben guardare molti dei suoi film svelano un punto di vista segretamente infantile o adolescenziale: così in “Prima della rivoluzione”, girato nella sua Parma, e ne “Il conformista”, nei godardiani “Partner”, “Ultimo tango a Parigi” con Marlon Brando (nella foto a fianco) e, più tardi “The Dreamers”, nell’inquieto Joe di “La luna”, nella ragazza viaggiatrice de “Il tè nel deserto” e nella solare Lucy di “Io ballo da sola”, fino all’adolescente Lorenzo del suo ultimo film, “Io e te” del 2012. Ci sono ovviamente delle eccezioni, quando Bertolucci guarda le trasformazioni del suo paese con occhio disincantato tra “La strategia del ragno”, l’altra faccia de “Il conformista”, “La tragedia di un uomo ridicolo”, il pensieroso “L’assedio” che rimane forse il suo ultimo, vero capolavoro. 

L’augurio che Bernardo Bertolucci ci fa dalle pagine del suo libro è proprio quello di vedere presto restituita al cinema italiano una maturità che vada di pari passo con una statura internazionale costante, ma in cui non vengano mai meno le due linee-forza del suo lavoro: la luce stupita dello sguardo di un bambino e la forza consapevole delle proprie radici. 

La menzione finale della sua laurea honoris causa lo restituisce anche oggi al suo vero mondo: “Parma e le terre della bassa e della collina che la circondano - si legge - sono entrate in molti suoi film, da ‘Prima della rivoluzione’ in poi, testimoniando il profondo legame che Bertolucci ha mantenuto coi suoi luoghi d’origine”. Così lo ricorderà, negli anni a venire, la sua terra.