LA PAZ – Lo hanno definito “un golpe improvvisato” per le sue dinamiche insolite: poca pianificazione, poca convinzione, nessun appoggio da parte delle opposizioni.
“In Bolivia abbiamo vissuto colpi di Stato estremamente cruenti, ultimo in ordine di tempo quello del 2019, durante le elezioni – dice Oscar Silva, giornalista e analista politico, un passato come viceministro alla Comunicazione del governo di Evo Morales –. Questo non sembra avere nessuna affinità. Diversa la congiuntura economica, diversi gli attori, diverso il contesto internazionale”.
I fatti, a dieci ore dall’inizio, sembrano ormai riscostruiti con una certa chiarezza.
Alcuni giorni fa il comandante generale dell’esercito Juan José Zúñiga rilascia una dichiarazione a dir poco sconcertante, in riferimento a una possibile nuova candidatura dell’ex presidente Evo Morales. Zúñiga avrebbe detto che, se Morales si fosse ripresentato, bisognava bajarlo (tirarlo giù). In gergo militare, bajar significa uccidere.
Destituito immediatamente dal suo incarico, appare nel pomeriggio del 26 giugno, alle 14, in Plaza Murrillo a La Paz, davanti al Palazzo di Governo, a bordo di un mezzo blindato, accompagnato da altri militari dal volto coperto. Vuole parlare con il presidente Luis Arce, che fa parte del Mas (Movimento al socialismo), lo stesso partito di Evo Morales, ma attualmente diviso proprio tra la corrente degli arcistas e quella dei sostenitori dell’ex presidente.
Nell’attesa Zúñiga fa dichiarazioni sulle proprie intenzioni di riportare ordine nel Paese e sistemare l’economia. Ha anche chiesto la liberazione di Fernando Camacho e Jeanine Áñez, i leader del golpe del 2019, attualmente in carcere.
Añez sta scontando una condanna a 10 anni del 2022, Camacho è detenuto in attesa di giudizio. All’epoca dei fatti era governatore di Santa Cruz, provincia separatista.
“Ora la spinta secessionista di Santa Cruz si è esaurita – afferma Silva –. Il reclamo politico ha ceduto il passo a quello economico”.
Ma torniamo a Plaza Murrillo. Dopo varie trattative Zúñega viene ricevuto da Arce. Li vedono discutere animatamente, Arce alza la voce, gli intima di andarsene e, dopo un breve alterco, il militare esce dal palazzo e resta in attesa sul mezzo blindato, finché non escono i nuovi comandanti dell’esercito a ordinargli di andarsene con i suoi uomini. A quel punto obbedisce.
Sarà arrestato poco dopo con l’accusa di ribellione armata, attentato a beni pubblici e alla sicurezza del presidente.
“Ha dichiarato che era stato lo stesso Arce a chiedergli di inscenare un’insurrezione – dice Madeleyne Aguilar della pagina web La Nube (www.todosnube.com), una testata indipendente creata da giovani giornalisti –. Un autogolpe per risollevare la propria popolarità, attualmente ai minimi storici. In effetti, subito dopo il tentato blitz dei miitari, la piazza si è riempita di sostenitori del presidente che gridavano slogan a suo favore”.
La Bolivia sta attraversando un momento complicato, legato alla crisi economica, alla difficoltà a rifornirsi di carburante e alla scarsità di riserve di dollari, che complica la vita a chi deve importare beni dell’estero.
“A drenare il carburante sono le attività illegali: miniere non autorizzate e narcotraffico – spiega Silva –. Per le attività produttive lecite e per il consumo privato resta ben poco”.
Il malcontento serpeggia nel Paese. “I medici sono in sciopero – spiega Aguilar –. Gli autotrasportatori bloccano le strade”.
Al contrario, quello del 2019 era stato un golpe contro un governo di successo.
Alla fine del secondo mandato di Evo Morales, l’industria delle costruzioni era in moto permanente in Bolivia. La capitale La Paz si era dotata della rete di teleferiche più estesa del mondo, per bypassare il traffico delle strade sinuose di una città a 3650 metri di altezza.
El Alto (la seconda città del paese, un tempo quartiere di La Paz, estesosi come un cancro di cemento che corrode la montagna) si era gentrificato ed erano spuntate come funghi villette dall’architettura fantasiosa, prova tangibile del livello di benessere raggiunto dai proprietari, la maggior parte dei quali appartenenti alla nuova classe media chola (così viene chiamata la popolazione indigena urbanizzata).
“Diversissima, poi, la reazione internazionale e interna alla notizia dell’assalto di Zúñega – afferma Silva –. Nel 2019 gli ambasciatori del Regno Unito, della Ue e degli Usa si riunivano con i golpisti per avere notizie”.
Oggi c’è stata una reazione internazionale immediata, a partire dalla Spagna, a sostegno di Arce.
Aggiunge Silva: “Dalle opposizioni, anche di estrema destra, nessuna dichiarazione in appoggio ai golpisti”. Carlos Mesa (ex presidente boliviano dal 2003 al 2005 e grande avversario di Arce) ha ripudiato il golpe. L’ha definito un vulnus alla democrazia e ha ricordato che il mandato dell’attuale governo finisce l’8 novembre 2025 e che qualsiasi tentativo di farlo cadere in altro modo va considerato “colpo di Stato”.
Le autorità non hanno decretato lo stato d’assedio né il coprifuoco. A La Paz, come nel resto del Paese, si può circolare liberamente. Sono stati riportati nove feriti negli scontri di piazza tra soldati e militanti del Mas, il partito di Arce.
Scene di panico nella popolazione? “Ci sono state, qui a La Paz, nel senso che sono stati presi d’assalto i negozi, gli sportelli automatici delle banche e le stazioni di servizio – racconta Aguilar –. La paura principale era ritrovarsi senza scorte di cibo, carburante e contanti”.