La “mossa del cavallo” non bastò a dare scacco matto a Tito. Si chiamava proprio così, Rosselsprung, l’operazione speciale che alla fine di maggio 1944 doveva portare i tedeschi a mettere le mani sul Maresciallo Josip Broz, vivo o morto, e infliggere un colpo letale all’Esercito popolare di liberazione, risolvendo uno dei nodi strategici sulla turbolenta scacchiera dei Balcani. Già due piani militari della Wehrmacht, alla fine del 1943, avevano mancato l’obiettivo di stroncare la resistenza in Jugoslavia e così ad aprile Adolf Hitler aveva deciso di affidare personalmente l’incarico di catturare Tito al maggiore SS Otto Skorzeny, falso liberatore di Benito Mussolini dall’albergo-prigione di Campo Imperatore il 12 settembre 1943, ma autentico eroe creato dalla propaganda nazista, che il Führer considerava alle sue dirette dipendenze per una di quelle che nel dopoguerra il fanfarone austriaco chiamerà nelle sue memorie “missioni impossibili”.

Per Skorzeny il Terzo Reich aveva creato un’unità d’élite di volontari, i Brandenburger, una specie di esercito privato all’interno della milizia di partito SS. Skorzeny, fedele al suo stesso mito alimentato dal ministro Joseph Goebbels, aveva compiuto una ricognizione in Bosnia, dove Tito teneva il suo quartier generale, appurando che il Maresciallo si trovava in una grotta al di sopra della cittadina di Drvar. La località, secondo le informazioni raccolte, era ben protetta da un attacco in forze, com’era invece nei piani del X Corpo d’armata. Skorzeny propose al generale Lothar Rendulic un colpo di mano con soldati tedeschi travestiti da partigiani, che però venne respinto. Anzi, il risultato fu essere subito estromesso anche lui dal piano su vasta scala che prevedeva un bombardamento aereo seguito dal lancio di paracadutisti SS. Era stato il controspionaggio britannico ad allertare il Maresciallo su un’offensiva tedesca che sarebbe stata scatenata simbolicamente in prossimità della sua data di nascita (25 maggio, secondo documenti falsi rinvenuti dai tedeschi che li credettero veri, e anche lo stesso Tito aveva fornito più varianti rispetto al 7 maggio), ma senza poter aggiungere altro. Questo aveva portato al rafforzamento delle misure di sicurezza a protezione del quartier generale, con lo spostamento di intere unità partigiane per isolare e tenere sotto controllo le linee di comunicazione che portavano a Drvar.

Era proprio la cittadina, però, a essere pericolosamente sguarnita di forze partigiane. Il 25 maggio dopo un breve ma intenso bombardamento iniziato alle 6.30, il cielo di Drvar si riempì delle sagome inconfondibili dei trimotori Junkers Ju-52 e l’azzurro si punteggiò del violetto dei paracadute del 500esimo battaglione SS agli ordini dell’Hauptsturmführer Kurt Rybka, prima ondata delle truppe d’assalto che sarebbero state rinforzate da unità aviotrasportate a bordo di alianti DFS-230. Da terra avanzavano intanto i soldati del XV Corpo da montagna, nelle cui fila militavano i croati dell’esercito indipendentista e pure i cetnici di Draza Mihalovic che smaniavano più dei tedeschi dalla voglia di catturare o eliminare Tito. A sbarrare il passo, circa 16.000 partigiani comunisti, che si batteranno con estremo coraggio per permettere la salvezza al loro comandante.

La situazione nella grotta di Drvar apparve subito critica. Tito solo a distanza di quasi quattro ore dall’attacco, e con le comunicazioni con i reparti dell’Esercito popolare iugoslavo affidate a messaggeri perché quelle via radio erano state subito interrotte, si decise a sottrarsi alla cattura riuscendo ad allontanarsi con un treno che era stato approntato in caso di emergenza verso Jajce, mentre attorno alla cittadina e al quartier generale difeso dalle truppe partigiane infuriava la battaglia. I tedeschi, peraltro, non conoscevano l’esatta ubicazione della grotta col quartier generale e quindi avevano investito l’intera montagna, avendo programmato il ricongiungimento con le truppe di terra entro la serata. Con Tito c’erano la compagna Davoranka Paunovic, nome di battaglia Zdenka, che fungeva da segretaria, e il suo fedele pastore alsaziano.

Per evitare che potesse essere catturato con qualche appendice all’operazione militare era necessario che lasciasse la Jugoslavia, in attesa dell’esito dello scontro e degli eventi. Nella notte tra il 3 e il 4 giugno a Kupresko Polje atterrerà un DC-3 Dakota con la stella rossa sovietica pilotato dal maggiore Sornikov che lo porterà a Bari, dove rimarrà due notti prima di essere imbarcato sul cacciatorpediniere britannico Blackmore che lo condurrà sull’isola di Lissa (Vis) dove reinsedierà il quartier generale, secondo i suoi desideri e secondo gli accordi presi durante la ritirata con gli ufficiali di collegamento inglesi. A Lissa, accompagnato da Fitzroy MacLean, ristabilirà il comando in una caverna dove sarà raggiunto dal maggiore Randolph Frederick Churchill, figlio del premier Winston, e dal capitano Evelyn Arthur Waugh.

La battaglia scatenata con l’Operazione Rosselsprung si era risolta con un successo tattico tedesco, ma con un sostanziale smacco strategico. Tito era sfuggito per un soffio dalle loro mani, e come trofeo si poté mostrare solo una sua uniforme rinvenuta a casa di un sarto locale che la stava rimettendo a posto. Verrà fotografata mentre alcuni paracadutisti sorridenti la espongono davanti ai corrispondenti di guerra come trofeo, e poi portata a Vienna assieme alle bandiere inglesi e americane catturate. Sul costo in vite umane le fonti sono discordanti. I tedeschi per il XV Corpo ufficializzeranno 213 morti e quasi 900 feriti, oltre a 51 dispersi, mentre il 500esimo battaglione paracadutisti SS composto da 800 combattenti era stato decimato (179 morti, 73 feriti), a fronte di circa 6.000 perdite, di cui circa 2.000 morti e 1.400 presunti, inflitte agli iugoslavi; che dal canto loro sosterranno di aver subito 399 morti e 479 feriti, attribuendo ai bombardamenti e ai tedeschi non meno di 2.000 vittime sul territorio di Drvar. Tito, nato il 7 maggio, in ricordo dell’evento festeggerà da allora il compleanno il 25.