Adesso ci siamo, dopo mesi di ‘quasi’ campagna elettorale, si sono aperte ‘le danze’ di quella che è destinata ad assumere, da qui alle prossime cinque settimane, la forma di ‘singolar tenzone’ tra il primo ministro Anthony Albanese e il leader dell’opposizione Peter Dutton.
Un duello fatto di parole, promesse, impegni e, si spera, proposte politiche, economiche e sociali di ampio spettro, che dovrà provare a cambiare prospettiva da un voto contro colui di cui si ha meno fiducia verso una scelta positiva nei confronti di chi si ritiene possa essere in grado di traghettare il Paese verso un futuro più roseo.
Scelta non facile, e i sondaggi sembrano confermarlo, con l’ipotesi sempre più concreta di una vittoria senza maggioranza, con tutte le conseguenze di un Parlamento indebolito e un governo compromesso nelle sue eventuali proposte di riforma.
Anthony Albanese e Peter Dutton sono due politici navigati, il primo in Parlamento dal 1996, e il secondo dal 2001, entrambi quindi decisamente avvezzi a quanto accade nelle Aule e, con diversi ruoli e incarichi, nelle stanze del governo.
Due volti ben noti, quindi, del panorama politico, ma entrambi, oggi, sembrano fare molta fatica a conquistare la fiducia degli elettori.
Il contesto non è dei più semplici, contrassegnato da malcontento e insofferenza generale per l’impatto del sempre più alto costo della vita, per una ormai cronica stagnazione della produttività e una crescente incertezza geopolitica, e il rischio più grande è che i cittadini percepiscano questa campagna elettorale non come un’occasione di rinnovamento, ma come un passaggio obbligato, una scelta tra due opzioni considerate imperfette. Più che una gara tra visioni contrapposte per il futuro dell’Australia, sembra profilarsi una competizione basata sulla reciproca sfiducia.
Il primo ministro Anthony Albanese si presenta all’elettorato con il peso e la responsabilità di un governo in carica da tre anni. Dopo aver guidato i laburisti alla vittoria nel 2022, cerca oggi una rielezione che avrebbe un valore simbolico enorme: rompere il ciclo di instabilità politica degli ultimi quindici anni e dare all’Australia un governo capace di affrontare un secondo mandato.
Albanese sta puntando molto sulla narrazione della “ripresa”, avvenuta grazie all’impegno del suo governo, sostiene che l’economia ha superato la fase peggiore, registra che l’inflazione è in calo, i salari reali sono in aumento, e che i conti pubblici – pur appesantiti, come abbiamo visto dal recente budget – sono tuttavia gestibili. Rivendica le misure adottate: il taglio delle tasse per i redditi medio-bassi, gli aiuti per le bollette, la riduzione del debito studentesco, gli investimenti nella sanità pubblica e nella formazione tecnica gratuita.
Ma il problema di Albanese non è solo nella sostanza di quanto fatto – che resta comunque discutibile, al netto dei limiti strutturali delle condizioni del bilancio – ma anche nel tono. Il suo approccio moderato non ha scaldato i cuori in questi tre anni, è sembrato, in più occasioni, che abbia fatto fatica a ottenere un consenso solido da un elettorato che, pur riconoscendo alcuni risultati ottenuti, resta ancora con l’interrogativo su quanto fatto, o non fatto, per gestire l’impatto del costo della vita e deluso da un’agenda apparsa a tratti spenta e senza visione. Nell’intervista concessa a The Australian, il primo ministro qualche giorno fa si è definito “riformista, non rivoluzionario” dicendosi convinto di poter guidare per un secondo mandato un governo di maggioranza, ma in un momento storico di grandi mutamenti e transizioni – energetiche, tecnologiche, sociali e demografiche – questa definizione rischia di suonare più come una giustificazione che come una visione.
Sul fronte opposto, Peter Dutton prova a capitalizzare lo scontento. Ex ministro degli Interni e della Difesa, Dutton vuole essere il primo leader dell’opposizione a riportare la Coalizione al governo dopo un solo mandato di opposizione dal 1931. È una sfida più che ardua: per ottenere una maggioranza servirebbe una vittoria larga, difficile da immaginare visti i precedenti del 2022 e le perdite subite in alcuni seggi chiave.
La sua campagna ruota attorno a un messaggio chiaro: “Gli australiani stanno peggio oggi rispetto a tre anni fa”. Cita l’aumento dei costi di affitti e mutui, le difficoltà nel settore sanitario, la criminalità, il carovita generale, e accusa il governo di aver infranto il sogno australiano. Il suo slogan prova a essere semplice, diretto, e punta a evocare un Paese fuori controllo che ha bisogno di disciplina e di un bagno di realtà. Il piano di Dutton si articola su alcune priorità: abbassare l’inflazione, ridurre il costo dell’energia, rendere le case più accessibili, migliorare l’assistenza sanitaria e rafforzare la sicurezza pubblica. Propone un taglio, dalla chiave abbastanza populista e sulla cui efficacia sul lungo termine ci sarebbe molto da analizzare, delle accise sul carburante per 12 mesi – una misura immediata e comprensibile, anche se, appunto, costosa e priva di effetti duraturi – e rilancia sull’energia con una proposta per l’introduzione dell’energia nucleare in Australia. Quest’ultima idea ancora non delineata in maniera comprensibile e chiara, ma l’auspicio che da qui alle prossime settimane Dutton e la sua squadra siano in grado di strutturare le proprie proposte in maniera più dettagliata ed efficace.
Ha già parlato di volere maggiore spesa per la difesa, un’azione più decisa contro la criminalità, e l’accesso alla Superannuation per aiutare i giovani a comprare casa.
Eppure, l’agenda di Dutton è ancora fragile. Alle promesse non corrisponde ancora un piano fiscale coerente: ha rifiutato i tagli fiscali laburisti presentati martedì scorso da Jim Chalmers, ma, ad oggi, non ne propone uno alternativo sostenibile, promette risparmi di spesa ma non indica dove incidere, e si affida alla riduzione dei costi della burocrazia e alla crescita delle industrie minerarie e manifatturiere senza chiarire i dettagli. È un’agenda che parla alla pancia degli australiani, ma non sempre offre soluzioni concrete.
Albanese e Dutton parlano a due elettorati molto diversi. Il primo cerca di mantenere il consenso nelle aree metropolitane, tra i giovani, le donne e i lavoratori dei servizi pubblici. Il secondo punta ai sobborghi, alle aree regionali, agli elettori più anziani e ai piccoli imprenditori.
Entrambi devono però fare i conti con le sfide trasversali del presente: il declino della produttività, l’instabilità internazionale, la polarizzazione sociale e una crescente diffidenza verso la politica. Entrambi, inoltre, dovranno necessariamente tenere in buona considerazione anche sfide parallele. Albanese deve gestire la concorrenza dei Verdi, che lo incalzano a sinistra soprattutto su ambiente, immigrazione e giustizia sociale. Dutton deve evitare una nuova emorragia di voti verso i candidati indipendenti “teal”, particolarmente forti nelle aree urbane più liberali e nei seggi storicamente conservatori.
Ma il vero rischio è l’apatia e questa campagna sarà decisiva, non solo per le proposte in campo, ma anche per la capacità di entrambi i leader di generare fiducia e partecipazione. Il rischio di un governo di minoranza, in un parlamento frammentato, comporta la realtà di una popolazione sempre più disillusa. Il vero spettro non è la vittoria dell’uno o dell’altro, ma un’ulteriore erosione della fiducia nelle istituzioni, nella politica, nella possibilità stessa di cambiare le cose e immaginare un futuro diverso.
Le grandi questioni di oggi e del futuro – la transizione energetica sostenibile, l’equità sociale, l’evoluzione tecnologica, la geopolitica indo-pacifica e internazionale – finora sono ai margini. Il confronto si concentra su misure temporanee e slogan efficaci, mentre l’Australia ha bisogno di una nuova ambizione nazionale. Di una politica che non rincorra l’elettorato, ma lo ispiri, una politica guidata da statisti che provino a vedere ben oltre il prossimo triennio.