HONG KONG – Carrie Lam, il capo esecutivo dell’ex colonia britannica, si è scusata nuovamente per la gestione delle proteste contro la di legge per l’estradizione e ha aggiunto che, malgrado le richieste dei manifestanti, non intende dimettersi dal suo ruolo.
Cominciato dopo le proteste del 2014 per il suffragio universale, il mandato di Lam non sembra in pericolo, almeno per il momento, ma la necessità di bilanciare gli interessi di Hong Kong e quelli di Pechino potrebbero richiedere un cambio di leadership nel prossimo futuro. Dopo cinque anni alla guida del Paese, Carrie Lam ha pochissimi sostenitori e questo vale non solo per la popolazione che è scesa in piazza ma anche per l’esecutivo e per il governo centrale di Pechino.
Nel corso di una conferenza stampa, la seconda in soli tre giorni, Lam ha ribadito che non c’è “nessuna tempistica” per la discussione della legge, per poi aggiungere: “Non riprenderemo il dibattito sull’emendamento senza aver prima risolto le divisioni che attraversano la nostra società”. La proposta di legge quindi rimane sul tavolo, ma per ora non sarà discussa.
Ma le scuse della leader di Hong Kong non convincono i manifestanti, che prevedono nuove proteste e chiedono “indagini indipendenti” sull’operato della polizia durante gli scontri della settimana scorsa. “Le parole di Lam non ci soddisfano”, ha reso noto il Fronte per i diritti umani e civili, una delle organizzazioni più attive nelle proteste contro la legge sull’estradizione. “Lam ha ignorato le nostre richieste e per questo non merita una seconda chance”, ha dichiarato il Fronte.
La legge, se approvata, consentirebbe di estradare in Cina quei cittadini di Hong Kong che sono accusati di reati gravi come l’omicidio e lo stupro. Secondo gli oppositori, la legge esporrebbe l’ex colonia britannica al sistema giudiziario cinese, che, oltre a essere profondamente corrotto, fa spesso ricorso ad accuse di questo tipo per intimorire i dissidenti politici e controllare il loro operato. 
È chiaro che con questa legge il governo di Pechino vuole mandare un messaggio a tutti i critici del regime, dovunque si trovino: all’interno del territorio cinese non esistono rifugi per chi si oppone alla leadership. 
A questo proposito è importante ricordare che il territorio cinese comprende tre città stato semindipendenti: Taiwan, Macao e Hong Kong. Delle tre, Hong Kong è quella che gode di maggiore autonomia amministrativa, oltre ad avere un sistema giudiziaro indipendente. Ed è per questo che la Cina vuole estendere il proprio raggio d’azione sull’ex colonia britannica, dove, nel corso degli anni, centinai di dissidenti ha trovato rifugio e libertà di espressione.
Ma le manifestazioni degli ultimi giorni hanno una portata che va al di là della legge sull’estradizione, per sovrapporsi con la “trade war” tra Stati Uniti e Cina. Non a caso Washington ha dichiarato che la decisione di non ritirare la legge potrebbe minacciare il riconoscimento di una zona economica speciale, non soggetta a dazi, che faccia riferimento o graviti attorno a Hong Kong. 
Per questo il destino della legge sull’estradizione potrebbe dipendere non tanto da quello che accade nelle strade e negli uffici governativi di Hong Kong, ma dal corso della “trade war” e dagli obiettivi – economici, politici e d’immagine – che i leader di Stati Uniti e Cina si propongono raggiungere.