Nel 1975, l’Australia scriveva una pagina storica.
Il Parlamento federale approvava il Racial Discrimination Act (RDA), prima legge nazionale a rendere illegale ogni discriminazione basata su razza, colore, origine etnica o nazionale.
Una svolta giuridica e simbolica, che sanciva per la prima volta il principio dell’uguaglianza legale per tutti, indipendentemente dalle origini.
A guidare quel cambiamento epocale fu il governo laburista di Gough Whitlam, deciso a liberare il Paese dall’ombra lunga delle politiche di esclusione razziale introdotte all’inizio del Novecento.
Il punto di partenza fu l’Immigration Restriction Act 1901, una delle prime leggi approvate dal neonato Parlamento federale.
Questo atto segnò formalmente l’inizio di quella che sarebbe poi passata alla storia come la cosiddetta White Australia Policy, un’espressione informale che indica un insieme di leggi e pratiche volte a limitare l’immigrazione di persone non europee, con l’obiettivo di mantenere l’Australia “bianca”. Fino al 1958, era perfettamente legale respingere un immigrato semplicemente perché “non bianco”, usando strumenti come il famigerato dictation test, una prova linguistica somministrata in una lingua europea scelta arbitrariamente dall’ufficiale. Il test era concepito per essere fallito, come dimostra il celebre caso di Egon Kisch, scrittore ebreo-austriaco poliglotta, escluso dal Paese nonostante conoscesse sei lingue.
Una svolta importante arrivò con il Migration Act del 1958, approvato durante il governo liberale di Harold Holt. La legge abolì il dictation test e segnò l’inizio dello smantellamento delle politiche razziali nell’immigrazione, aprendo gradualmente l’Australia a una maggiore diversità culturale.
Ma fu solo con il Racial Discrimination Act del 1975, promosso dal ministro della Giustizia, Lionel Murphy, che l’uguaglianza divenne un principio giuridicamente vincolante a livello federale. Il RDA rese illegale, come detto, ogni forma di discriminazione basata su razza, colore, discendenza, origine etnica o nazionale. E soprattutto sancì per la prima volta il diritto di ogni persona a essere trattata con pari dignità e rispetto.
La legge fu anche il risultato di un impegno internazionale: nel 1975 l’Australia ratificò la International Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination (ICERD), adottata dalle Nazioni Unite nel 1965. Si tratta di uno dei primi trattati globali sui diritti umani, che obbliga gli Stati firmatari a condannare ogni forma di razzismo e a garantire uguaglianza davanti alla legge. Il RDA fu quindi il necessario strumento legislativo per dare applicazione interna a tale Convenzione.
Secondo l’Australian Human Rights Commission (AHRC), il RDA “ha rappresentato un cambiamento significativo nella protezione dei diritti umani in Australia, ponendo le basi per una società più giusta e inclusiva”.
Oggi l’Australia è una società profondamente multiculturale, ma le sfide non sono finite. Secondo il Mapping Social Cohesion Report 2024 (Scanlon Foundation/ANU, novembre 2024), il 17% degli australiani riferisce di aver subito discriminazioni per motivi legati alla razza, al colore della pelle o alla religione nell’ultimo anno.
La percentuale sale al 34% tra le persone nate all’estero in Paesi non anglofoni. Allo stesso tempo, il supporto al multiculturalismo rimane alto: l’85% degli australiani crede che abbia giovato al Paese, e l’82% riconosce il contributo dei migranti. Tuttavia, entrambi gli indicatori sono in lieve calo rispetto agli anni precedenti, forse a causa delle pressioni economiche e della crisi del costo della vita.
È aumentata, per esempio, la percezione che l’immigrazione sia “eccessiva”: oggi lo pensa il 49%, contro il 33% nel 2023. Il report evidenzia che giovani e migranti stabilitisi da oltre dieci anni esprimono un forte senso di appartenenza e apertura alla diversità. Al contrario, chi vive in condizioni economiche precarie tende ad avere meno fiducia nelle istituzioni, alimentando un senso di esclusione che può indebolire la coesione sociale.
L’anno scorso, la AHRC ha lanciato il primo National Anti-Racism Framework, frutto di oltre tre anni di consultazioni con 1.200 organizzazioni e individui.
Il documento afferma chiaramente che “celebrare il multiculturalismo non basta se non si affrontano le radici del razzismo sistemico”. Tra le proposte principali: formazione obbligatoria contro il razzismo per enti pubblici e privati, nuove responsabilità per le piattaforme online, una riforma del RDA per introdurre un positive duty, ovvero l’obbligo legale di prevenire attivamente la discriminazione.
Il commissario Giridharan Sivaraman, attuale Race Discrimination Commissioner presso l’AHRC, nel presentare il documento, ha ricordato che “il RDA ha permesso a migliaia di persone di cercare giustizia, ha modellato la giurisprudenza e accresciuto la consapevolezza pubblica”.
Ma ha anche avvertito: “Il lavoro da fare è tutt’altro che finito per affrontare il razzismo nel nostro Paese. Il razzismo sistemico persiste, e molte comunità continuano a incontrare ostacoli nell’accesso alla salute, all’istruzione, all’occupazione e alla giustizia.
Questo anniversario non è solo un momento di riflessione: è una chiamata all’azione”.
Anche a livello municipale, si fanno passi avanti. L’Inner West Council ha approvato nel 2024 la prima Strategia Anti-Razzismo locale del New South Wales, sotto la guida del sindaco Darcy Byrne. Le iniziative includono: il programma Cultural Connections, la formazione anti-razzismo in collaborazione con la Western Sydney University, memoriali per le comunità First Nations, campagne pubbliche per rafforzare l’impatto della Giornata dell’Armonia.
Cinquant’anni dopo, dunque, il razzismo sistemico continua a colpire in modo sproporzionato le popolazioni First Nations, i migranti recenti (inclusi coloro provenienti da India, Cina, Nepal, Iran, Pakistan, Filippine) e le persone di origine asiatica, africana o mediorientale.
Molti sono arrivati per lavoro, studio o protezione umanitaria e non avendo ancora reti stabili o cittadinanza, risultano più esposti a discriminazioni multiple: linguistiche, culturali, religiose.
Per la comunità italiana, tra le prime a confrontarsi col razzismo nell’Australia del dopoguerra, questi cinquant’anni sono anche occasione di riflessione: sul cammino fatto, ma anche sul ruolo attivo che può avere oggi nella difesa dei diritti delle minoranze.
Come ha ricordato Luigi Di Martino, docente alla Western Sydney University e presidente del Com.It.Es. del NSW, “molti connazionali mi hanno raccontato di discriminazioni subite per lingua, cultura o aspetto. Oggi l’Australia è un esempio positivo, ma i valori di rispetto e uguaglianza vanno difesi ogni giorno”.
Anche Franca Arena, prima donna d’origine non anglosassone eletta al Parlamento statale del New South Wales, ha ricordato le difficoltà degli anni Settanta e l’impatto positivo della svolta culturale promossa dal governo Whitlam: “Essere parte dell’Australia significava anche mantenere la dignità delle nostre radici. Ho combattuto molte battaglie, alcune vinte, altre perse ma oggi il razzismo è molto meno tollerato anche grazie alla presenza di un solido quadro normativo costruito a partire, appunti, dal 1975”.
Infine, Paolo Totaro, primo presidente della Commissione per gli Affari Etnici del NSW nel 1977, ha sottolineato che “prima non era permesso essere diversi. Poi lo è diventato. E infine è diventato dovere delle istituzioni proteggerlo. Ma oggi il multiculturalismo rischia di diventare uno slogan. O si accetta la differenza o la si rigetta: non ci sono vie di mezzo”.
La memoria delle conquiste serve solo se ci spinge a fare meglio. Perché i diritti, come il rispetto, non si ereditano: si difendono, si praticano, e soprattutto, si rinnovano nel presente.