Come Giano bifronte, l’83enne Antonio Anastasi guarda indietro e guarda avanti, alle due generazioni di Anastasi che l’hanno preceduto e alle due che ha generato, e le unisce in un’unica grande epopea di famiglia che si snoda attraverso tre continenti, i due conflitti mondiali, le fughe dai bombardamenti, i campi profughi, le grandi ondate migratorie.

Il settimo di otto figli, Antonio è sempre stato il custode dei racconti di famiglia, che già negli anni ’70 aveva cominciato a raccogliere in forma scritta. Ma solo recentemente, con il contributo del nipote Sebastiano, si è deciso a stampare un piccolo libro di memorie, tra un deserto africano e un deserto australiano, e di farlo tradurre in inglese.

“Mio padre, d’inverno, ci raccoglieva tutti seduti di fronte a lui, quattro fratelli e quattro sorelle, tutti nati a distanza di due anni l’uno dall’altro, e ci narrava le storie di famiglia, sia belle che brutte”, racconta Antonio con tono gioviale.

La storia comincia, quindi, con il nonno di Antonio, Bernardo Anastasi, che da Trapani si trasferì a Tunisi, a lavorare in una tonnara. “I primi tempi andava da solo, quattro mesi l’anno; poi si portò dietro tutta la famiglia. Mio padre Michele lo aiutava già a otto anni e poi da adulto aprì una pizzicheria”. Intanto, era scoppiata la Prima guerra mondiale e Michele fu chiamato a servire la patria. Avendo imparato a parlare molte lingue a Tunisi, il suo compito di soldato era di avvicinarsi al campo nemico nottetempo e origliare, nella speranza di captare preziose informazioni. Ma una notte si imbatté in un militare austriaco che aveva la sua stessa missione e andava nella direzione opposta. “I loro due elmetti si scontrarono con clangore nel buio della notte. Si guardarono negli occhi e tirarono fuori i coltelli. Poi mio padre vide quel soldato piangere, ed entrambi, spinti da una forza inspiegabile e più grande di loro, riposero i pugnali nel fodero. Mio padre chiese all’altro perché piangesse, e questi gli mostrò una foto di una donna con tre figli in grembo. Si scambiarono sigarette e cioccolato e poi si salutarono come vecchi amici. Per cose del genere si rischiava la fucilazione”.

Dopo esser stato catturato durante la ritirata di Caporetto, Michele tornò a Tunisi, dove nacquero gli otto figli, tutti all’ospedale italiano voluto da Mussolini. Antonio aveva solo due anni quando la famiglia fece ritorno in Italia con lo scoppio della Seconda guerra mondiale. “Già nel ’39 la Sicilia era sotto assedio, e così siamo scappati e arrivati piano piano a Udine, in un paesino chiamato San Giorgio della Richinvelda. Dopo l’armistizio siamo finiti nel centro profughi presso la basilica di San Frediano, a Lucca. Io aiutavo tutti i giorni con la Messa e spesso ero incaricato di raccogliere l’elemosina. Una volta una signora si avvicinò per donare 5mila lire, che al tempo erano banconote enormi. Io però conoscevo solo le monete, e pensai fosse un semplice foglio di carta e lo rifiutai.  Poco dopo sentii un pizzicotto sul fianco, così forte che ricordo ancora adesso il dolore. Era un prete alto che mi portò in sagrestia e mi mollò un bel ceffone. ‘Devi prendere tutto quello che ti danno!’, mi rimproverò”.

Dopo qualche anno Antonio entrò nel vicino convento di San Cerbone, avviandosi al noviziato francescano. “Mia mamma era una devota cattolica e quindi molto orgogliosa di me, ma poi successe qualcosa che fu la mia rovina. Quando avevo circa 12 anni uno dei miei fratelli venne a trovarmi. Era un tipo allegro e scanzonato, e in qualche modo io mi sono deviato. Ho cominciato a far baccano e il Priore mi ha visto come un’anima perduta e mi ha riportato a San Frediano dal parroco”.

Antonio allora tornò a Trapani dalla famiglia, ma solo per il tempo necessario per imparare il mestiere del carpentiere, grazie al quale non ebbe difficoltà a trovare lavoro a Milano e poi a Genova. Intanto, un fratello si era trasferito a Leeds, per lavorare nelle miniere dopo la guerra. “Dopo cinque anni aveva diritto a un lavoro all’aperto. Ma anche là ‘mancavano sempre 99 centesimi per far la lira’, e così nel ’60 si spostò con la famiglia in Australia, assistito dal governo inglese, e nel 1969 decisi di raggiungerlo, assieme a mia moglie Domenica e ai miei due figli piccoli, Luciano e Sabrina. Mi ricordo che quando arrivai l’Australia era appena passata dall’uso della sterlina a quello del dollaro”.

Stabilitosi nel quartiere di Mooroolbark, a Melbourne, dopo pochi mesi Antonio trovò un impiego con i produttori di cemento Pronto, della famiglia Barro, e la moglie in una fabbrica di piatti. Ben presto la famiglia poté comprare la prima casa e successivamente Antonio ne costruì una seconda con l’aiuto del figlio.

In pensione ormai da una ventina d’anni, Antonio ora si gode il suo orto e la compagnia dei cinque nipoti, ai quali dedica le storie della famiglia Anastasi e tutto il suo affetto di nonno.