Le isole Svalbard fanno parte di un piccolo arcipelago nel Mar Glaciale Artico, al largo della Norvegia, dove abitano meno di 3mila abitanti e dove gli effetti del cambiamento climatico sono particolarmente evidenti.
Qui, tra il mese di marzo e il mese di maggio scorsi, si è trasferito per circa 50 giorni un gruppo di scienziati internazionali, impegnati in una spedizione il cui obiettivo era di estrarre dei campioni dal ghiacciaio Holtedahlfonna.
La spedizione, guidata dall’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche - Cnr-Isp - con il coinvolgimento di scienziati del Centro nazionale francese per la ricerca scientifica - Cnrs -, dell’Istituto polare norvegese, dell’Università Ca’ Foscari Venezia e dell’Università degli Studi di Perugia, è riuscita, tramite delle trivellazioni, a recuperare tre ‘carote’ di ghiaccio, due delle quali verranno utilizzate per condurre degli studi, mentre la terza verrà conservata presso l’Ice Memory Sanctuary, una sorta di archivio dei ghiacci che la Ice Memory Foundation ha costruito in Antartide.
Con questa biblioteca speciale, ci si vuole assicurare che le future generazioni di scienziati abbiano la possibilità di accedere a dei campioni di ghiaccio di alta qualità, per studiare il clima passato del nostro pianeta e anticipare i cambiamenti futuri, anche molto tempo dopo la scomparsa dei ghiacciai a causa del riscaldamento globale.
A capo della spedizione il veneziano Andrea Spolaor, ricercatore per l’Istituto di scienze polari del Cnr e docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Studioso di paleoclima, ma anche dell’interazione che esiste fra il manto nevoso e l’atmosfera, Spolaor ha fatto numerose spedizioni, sia in Artide che in Antartide, ma anche in Groenlandia, sulle Alpi e appunto nelle Svalbard, dove, spiega:
“Le spedizioni vengono fatte perché sono più vicine e facilmente raggiungibili, pur trovando un ambiente artico”.
Spolaor racconta che, studiando i ghiacciai delle Svalbard, si cerca di capire come il cambiamento climatico stia modificando la composizione chimica e fisica della neve.
Per questo un gruppo di otto scienziati ha allestito un campo remoto a 1.100 metri di quota, dove ha trascorso venti giorni cercando il punto esatto dove trivellare per recuperare le ‘carote’, dei lunghi cilindri di ghiaccio a 74 metri di profondità.
“È stata fatta una valutazione molto attenta del sito: nonostante non fosse il punto più profondo, era il migliore, sia perché sommitale e sia perché è uno dei pochi siti conosciuti alle Svalbard dove si trova il ghiaccio freddo, ovvero un ghiacciaio con una minore fusione estiva, quindi dove la temperatura del ghiaccio è significativamente sotto lo zero, assicurando il mantenimento delle informazioni conservate nel ghiaccio”, spiega lo scienziato.
“Il ghiaccio - continua - contiene un codice scritto in formule chimiche. In base alla nostra capacità di decifrare il codice chimico, possiamo risalire a tutta una serie di informazioni relative ai processi ambientali del passato. La difficoltà sta nel trovare il processo ambientale che lega un determinata componente dell’ambiente, a un parametro chimico contenuto dentro la calotta di ghiaccio”.
Vivere e lavorare per venti giorni a una temperatura che poteva toccare i -30 gradi non è stato facile, anche perché, come spiega il capo spedizione, “dormivamo in tende non riscaldate, solo la tenda cucina e quella ‘salotto’ erano riscaldate a una temperatura di 5 gradi. Ma il problema era quando la temperatura si alzava e raggiungeva lo zero, perché allora nevicava e tirava vento”.
Come spesso succede, il percorso che ha portato Spolaor ad interessarsi a queste materie, è stato quasi casuale o “per una serie di coincidenze”, come sostiene. Una volta conseguito il diploma da perito chimico, si è iscritto alla facoltà di scienze ambientali, con specializzazione in chimica ambientale.
“Dopo l’università non era mia intenzione rimanere nell’ambito accademico, avevo pensato di andare a lavorare nel privato. All’ultimo anno della mia laurea specialistica ho conosciuto il professore Barbante, che poi è diventato Direttore del mio Istituto, che andava in Antartide e la curiosità mi ha spinto a provare. Ho poi fatto il dottorato sul paleoclima e sulle variazioni climatiche del passato e da lì, si sono presentate tutta una serie di opportunità, come le spedizioni alle Svalbard e in Antartide, che mi hanno aiutato a capire quello che mancava da un punto di vista scientifico sullo studio delle ‘carote’ di ghiaccio”.
Gli scienziati della spedizione alle Svalbard mentre trasportano i materiali per allestire il campo.
(Foto di Riccardo Selvatico per Cnr e Ice Memory Foundation)
Lo scienziato fa presente come la situazione sia modificata velocemente alle Svalbard negli ultimi dieci anni: “il clima e anche il paesaggio sono cambiati moltissimo in così pochi anni”, e sembra essere proprio questo il motivo dell’allarme: la velocità con cui le temperature stanno salendo non si era mai vista prima.
Anche per la comunità scientifica è difficile prevedere cosa succederà, ma, come evidenzia Spolaor “poiché esiste una correlazione fra l’anidride carbonica e le temperature, è anche plausibile pensare che l’emissione di CO2 che immettiamo nell’atmosfera, influenzi il cambiamento climatico”.
La risposta all’emergenza climatica dovrebbe arrivare da tutti, possiamo tutti fare la nostra parte, ma chiaramente servirebbero dei seri interventi a livello politico e un coordinamento globale.
Intanto, come suggerisce anche Spolaor, bisognerebbe partire dall’informazione, facendo cultura.